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di Denis Pianetti
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“Alto e massiccio, i capelli fluenti sulle spalle, l’occhio fiero e dignitoso da antico moschettiere, pare un personaggio balzato alla realtà dalle pagine vive e avventurose di Alessandro Dumas”. Così il critico d’arte Antonino de Bono descrive il maestro di levatura internazionale Rino Pianetti, “pittore della realtà”, da alcuni definito anche “il Caravaggio contemporaneo”, all’indomani della mostra personale tenutasi presso l’ambita Galleria d’Arte Bolzani di Milano fra il gennaio e il febbraio del 1980 [1]. Un artista che, all’epoca, già si era imposto con successo all’attenzione della critica nazionale e internazionale e aveva fatto della sua straordinaria dote un vero e proprio mestiere. Come lui stesso dirà “la pittura è mestiere; non credo all’ispirazione. Ci credo solo per la poesia: ispirazione iniziale, perché poi, anche lì, subentra il mestiere”.
Originario della Valle Brembana, Rino Pianetti nasce a Sesto San Giovanni il 19 aprile 1920 e trascorre la sua infanzia fra i nonni materni a Tirano, in Valtellina, e i genitori a Milano. È qui che viene a contatto con la dura e cruda realtà della città moderna, della nascente metropoli: la macchina industriale, le vie trafficate, il divario fra ricchezza e povertà, tra vecchio e nuovo, la malavita, la prostituzione. Un mondo lontano e diverso da quello pacifico e generoso della baita di Dom Bastone, in Valtellina, o degli alpeggi brembani che è solito visitare in compagnia del padre.
“Alto e massiccio, i capelli fluenti sulle spalle, l’occhio fiero e dignitoso da antico moschettiere, pare un personaggio balzato alla realtà dalle pagine vive e avventurose di Alessandro Dumas”. Così il critico d’arte Antonino de Bono descrive il maestro di levatura internazionale Rino Pianetti, “pittore della realtà”, da alcuni definito anche “il Caravaggio contemporaneo”, all’indomani della mostra personale tenutasi presso l’ambita Galleria d’Arte Bolzani di Milano fra il gennaio e il febbraio del 1980 [1]. Un artista che, all’epoca, già si era imposto con successo all’attenzione della critica nazionale e internazionale e aveva fatto della sua straordinaria dote un vero e proprio mestiere. Come lui stesso dirà “la pittura è mestiere; non credo all’ispirazione. Ci credo solo per la poesia: ispirazione iniziale, perché poi, anche lì, subentra il mestiere”.
Originario della Valle Brembana, Rino Pianetti nasce a Sesto San Giovanni il 19 aprile 1920 e trascorre la sua infanzia fra i nonni materni a Tirano, in Valtellina, e i genitori a Milano. È qui che viene a contatto con la dura e cruda realtà della città moderna, della nascente metropoli: la macchina industriale, le vie trafficate, il divario fra ricchezza e povertà, tra vecchio e nuovo, la malavita, la prostituzione. Un mondo lontano e diverso da quello pacifico e generoso della baita di Dom Bastone, in Valtellina, o degli alpeggi brembani che è solito visitare in compagnia del padre.
Timido e triste di natura, ma dal carattere forte e aggressivo, quasi crudo al primo impatto, matura ben presto un modo di conversare da erudito discreto, non invadente, ma spesso polemico. Inizia a frequentare l’Accademia di Brera, ma poi scoppia la guerra e Pianetti è arruolato nel terzo bersaglieri. Dapprima inviato sui fronti di Francia e Jugoslavia, fa in seguito tutta la campagna di Russia, vivendo il dramma della ritirata e la morte dell’unico fratello rimasto, Carlo (l’altro muore di meningite in tenera età). Dirà in seguito: “ho provato a fare disegni sulla memoria, poi ho distrutto tutto, erano falsi, è impossibile rendere quello che ho visto di persona…”. Al ritorno dalla Russia, forzato dai rastrellamenti in città, entra a far parte di un nucleo di partigiani di stanza nei pressi di Colico.
Dopo il periodo bellico completa i suoi studi presso l’Accademia delle Belle Arti di Amsterdam, ove si è diplomato. Sul finire degli anni Quaranta debutta con opere di tendenza impressionista, risultato delle sue ricerche e delle sue frequenti visite a musei olandesi e belgi, fortemente influenzato e affascinato dalla pittura dei grandi maestri fiamminghi. Risalgono a quest’epoca le sue prime mostre personali e collettive: nel 1948 al Tapié di Parigi; nel 1949 allo Stedelijk Museum di Amsterdam, al Palais de Versailles a Versailles, all’Achard de Voiron di Parigi.
Il suo rientro in Italia coincide con la personale presso la Galleria Pro Arte di Bergamo, tenutasi nel 1952, alla quale seguono quelle al Kursaal di Lugano, al Circolo degli Artisti di Luino, alla Galleria Ranzini di Milano, quest’ultima nel 1954. Le sue opere continueranno, nel frattempo, a percorrere le strade d’Europa, con le mostre al Palais Azurara di Lisbona, nel 1954; all’International Art Treasures Exhibition di Londra, nel 1961; alla Galerie Motte di Ginevra, nel 1962. Fra le tante organizzate nel milanese, sono da ricordare quelle alla Galleria Sagittario del 1966, all’Ars Italica nel 1968 e nel 1971, alla Galleria Bolzani nel 1980 (per realizzare quest’ultima mostra si rifiutò di vendere per ben due anni). La popolarità e l’apprezzamento delle opere di Rino Pianetti raggiungono in questi anni il loro apice, tanto che il Comune di Milano decide, nel 1983, di conferirgli l’Ambrogino d’Oro, la massima onorificenza cittadina. Il resto dei suoi anni li vive in modo appartato, sempre meno sulla scena, ma dedicando, come in passato, dodici, tredici ore giornaliere e anche più al suo mestiere, la pittura. Alla sua morte, avvenuta a Milano il 9 maggio 1992, le sue ceneri sono tumulate tra “i cittadini noti e benemeriti” del Cimitero Monumentale di Milano.
Il suo rientro in Italia coincide con la personale presso la Galleria Pro Arte di Bergamo, tenutasi nel 1952, alla quale seguono quelle al Kursaal di Lugano, al Circolo degli Artisti di Luino, alla Galleria Ranzini di Milano, quest’ultima nel 1954. Le sue opere continueranno, nel frattempo, a percorrere le strade d’Europa, con le mostre al Palais Azurara di Lisbona, nel 1954; all’International Art Treasures Exhibition di Londra, nel 1961; alla Galerie Motte di Ginevra, nel 1962. Fra le tante organizzate nel milanese, sono da ricordare quelle alla Galleria Sagittario del 1966, all’Ars Italica nel 1968 e nel 1971, alla Galleria Bolzani nel 1980 (per realizzare quest’ultima mostra si rifiutò di vendere per ben due anni). La popolarità e l’apprezzamento delle opere di Rino Pianetti raggiungono in questi anni il loro apice, tanto che il Comune di Milano decide, nel 1983, di conferirgli l’Ambrogino d’Oro, la massima onorificenza cittadina. Il resto dei suoi anni li vive in modo appartato, sempre meno sulla scena, ma dedicando, come in passato, dodici, tredici ore giornaliere e anche più al suo mestiere, la pittura. Alla sua morte, avvenuta a Milano il 9 maggio 1992, le sue ceneri sono tumulate tra “i cittadini noti e benemeriti” del Cimitero Monumentale di Milano.
Nature morte, soggetti floreali, composizioni con strumenti musicali, ritratti di persone, nudi femminili. La sua tematica spazia in ogni campo e si arricchisce, nella fase più recente della sua attività artistica, di un mondo che non è estraneo alla sua formazione psicologica: il mondo contadino della montagna, un mondo semplice e puro, ancor lungi dall’essere macchiato dagli infidi segni della civiltà moderna. Questo mondo è rappresentato con prodigiosa perfezione di memoria e di osservazione, si riveste di naturalezze espressive tipiche della civiltà agreste e della vita di tutti i giorni, con l’uomo e gli animali che qui vivono e lavorano. È la realtà, linda e naturale, della montagna valtellinese, quella materna, quella osservata dalla rustica baita di Dom Bastone – così come appare nelle opere “Lassù dove la vita è amore” e “L’ora della mungitura” (1982) – ma ancor più della montagna brembana, quella paterna, quella delle origini, che vive tuttavia con forte e malinconico distacco [3]. Rino Pianetti ama la valle e la sua gente, perché umile, lavoratrice, ancorata alla tradizione. È dalle sue frequenti peregrinazioni in terra brembana, sugli alpeggi e nei paesi dell’alta valle, che nascono opere significative come “Mandriano bergamasco” (1979), il ritratto di un vecchio dall’aspetto saggio e affettuoso i cui occhi, accorti e bonari, risaltano dall’incarnato bronzeo acquisito nelle altitudini montane e le cui mani, capaci e rugose, magistralmente eseguite dall’artista, ben rappresentano l’arduo lavoro quotidiano. Potenza evocativa che ugualmente emerge dall’olio “Pastorello bergamasco”, ma anche ne “L’attesa” e “I due cuccioli” (1979). Tutto è intriso dai segni del tempo, ogni particolare viene portato alla luce con scrupolo certosino: la vecchia porta, le mura intonacate della stalla, i mattoni sbrecciati, le pietre, gli strumenti del lavoro contadino. L’eccezionale ed abile maestria traspare dalle pieghe degli indumenti, dalla sofficità del lungo pelo degli animali, dalle fessure e dalle crepe del legno e del cemento; e, a non bastare, ecco la nuda realtà, gli effetti che l’artista ha aggiunto alla scena per portare l’opera ad essere contemporanea: i blue-jeans, il sacchetto di plastica.
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Una realtà studiata e narrata nei minimi dettagli. È questo il segreto di Rino Pianetti: l’arte diviene l’essere delle cose, assume un valore metafisico, si ferma l’immagine della “realtà-verità”. Un’arte che è insicurezza del presente e incertezza del futuro, dove pervade il tema ricorrente e morboso del tempo che passa, della morte. È il senso del presente fuggevole, quello che Leonardo sentiva al toccare l’acqua di un fiume: “è l’ultima di quella che viene, la prima di quella che va. Così il tempo presente”.
Realtà che è verità, realtà che è memoria, ma realtà che è anche poesia e sentimento. È quella addolcita nella morbidezza delle carni, nel malinconico abbandono del corpo femminile, rappresentato nella sua completa nudità, di tre fra le più importanti e apprezzate opere di Rino Pianetti. Tre scene, molto affini, nelle quali l’amore è sempre triste, è sempre fine; la felicità non è che un attimo fuggente – così crede e dice l’artista – è l’attimo di un sogno. “Inatteso addio” (1976), “Inizio di una fine” (1978), “Fine di un sogno” (1981): tre opere, forti ed evocative, dove il pathos si accentra sull’inerte, vinto e rassegnato atteggiamento della donna dipinta di spalle, il capo reclino sulle proprie braccia come se piangesse, e la lettera nemica, origine dell’amaro tormento. Qui l’artista giostra impeccabilmente sulla luce che avvolge e invade il corpo della donna e che rischiara l’ambiente sfarzoso e opulento che la circonda, fatto di tappeti e tappezzerie, piante ornamentali e mobili antichi.
Questo è Rino Pianetti, pittore della realtà. L’essenza della sua arte è oggi fermata nelle parole da lui stesso incise nella pietra – pietra che ormai ha preso il suo nome, Sasso Pianetti – presso la rustica baita di Dom Bastone, a 2114 metri: “Ascolta il silenzio del cielo, il linguaggio del vento, il canto della fonte, inebriati di questi colori. Ricrederai che al di là e al di sopra del volere degli uomini esiste un’unica, assoluta, inconfutabile realtà: l’amore”.
Questo è Rino Pianetti, pittore della realtà. L’essenza della sua arte è oggi fermata nelle parole da lui stesso incise nella pietra – pietra che ormai ha preso il suo nome, Sasso Pianetti – presso la rustica baita di Dom Bastone, a 2114 metri: “Ascolta il silenzio del cielo, il linguaggio del vento, il canto della fonte, inebriati di questi colori. Ricrederai che al di là e al di sopra del volere degli uomini esiste un’unica, assoluta, inconfutabile realtà: l’amore”.
[1] Rino Pianetti, Pittore della realtà in Arte più Arte, n. 2, marzo-aprile 1980.
[2] L’affetto per i luoghi d’origine lo porta a tenere due mostre molto significative, che riscuotono un meritevole successo: la prima si tiene presso la biblioteca comunale di San Giovanni Bianco nel 1978, mentre la seconda presso la Galleria Berna di San Pellegrino Terme nel 1984. Per alcune sue opere lo si può collegare idealmente alla grande tradizione pittorica brembana che, tra i “pittori della realtà”, annovera Baschenis e Ceresa.
[3] Rino Pianetti è nipote diretto del truce e leggendario Simone, efferato “giustiziere” che nell’estate del 1914 uccise a fucilate ben sette persone nei paesi di San Giovanni Bianco e Camerata Cornello. La triste vicenda, ragione per la quale la famiglia ha poi lasciato la valle trasferendosi nel milanese, non è altro che un brutto ricordo che si ripresenta in lui ad ogni ritorno, proprio perché ha infelicemente condizionato la sua infanzia e la vita della famiglia; non ama parlarne, tant’è che neanche la critica, vuoi per rispetto, vuoi per sua esplicita richiesta, fa alcun riferimento all’episodio. Riguardo alla scomparsa del nonno, ovvero alla sua fuga oltreoceano e a un suo ipotetico ritorno in Italia, egli ha sempre riportato la certezza del padre, unico e ultimo dei familiari a raggiungerlo sul monte Pegherolo, dove appunto si pensa sia morto.
[4] Il vero realismo di Rino Pianetti in Prospettive d’arte, Febbraio 1982.