Antiche leggende, toponimi, strane impronte e creature. E persino Arlecchino...

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Il diavolo e l'inferno nella tradizione popolare brembana
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di Denis Pianetti
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La tradizione popolare brembana conserva un patrimonio di usanze e di leggende molto antiche che rappresentano in qualche misura la memoria di avvenimenti lontani, eventi che hanno lasciato un’impronta indelebile nei luoghi e nella cultura della valle. Gran parte di questo folclore ha connotazioni di carattere macabro ed è posto in relazione al demonio, alle streghe, agli spiriti, alla morte. Una tradizione che perdura ancor oggi nella toponomastica locale, nel dialetto popolare, ma soprattutto in quel ricco e antico florilegio di storie e di leggende tramandate di generazione in generazione, fino ai giorni nostri [1]. E se luoghi come la Val d’Inferno, il Pizzo e il Lago del Diavolo o il Passo di Baciamorti incutono timori e rievocano in noi oscure storie di anime confinate, di uomini con i piedi di capra e di preti esorcisti, nessuno mai sospetterebbe che il personaggio più buffo e giocondo della nostra valle, il leggendario Arlecchino, avesse legami nientemeno che… con il diavolo!
Se la rappresentazione di certe macabre tradizioni scaturisce dalle angoscie umane, l’aspetto del “demoniaco”, nell’accezione più ampia del termine, ha da sempre permeato la fantasia della gente, intrisa di quel tormento e di quella dannazione che diviene latente espressione del fantastico.

Il demonio assume nella storia varie forme e varie vesti, subendo continue mutazioni anche a causa dell’evoluzione dei tempi, da creatura mostruosa in continuo contatto con l’uomo, con il quale stringerebbe patti peccaminosi e sacrileghe amicizie, ad angelo traditore, elegante cavaliere o femmina seducente, sino a raggiungere il culmine durante i processi per stregoneria, ove le numerose condannate parlavano del diavolo sotto forma di gatti, rospi, serpenti, draghi e basilischi. La lotta contro il demone-dragone diventa fin da subito un topos nelle rappresentazioni sacre e nell’iconografia occidentale e a partire dai secoli bui del Medioevo, secoli di paure e superstizioni, la figura diabolica diviene reale e persecutrice, permeando ancor di più i racconti e le leggende popolari e contribuendo ad arricchire ulteriormente la toponomastica locale di epiteti legati al temibile mondo di Lucifero.
Sono questi i luoghi del diavolo, luoghi caratterizzati da aspetti particolarmente aspri e considerati pericolosi, misteriosi e inquietanti per la loro conformazione. Luoghi da evitare, dove vivono demoni, streghe, mostri, fantasmi, folletti, selvatici, banditi e quant’altro la fantasia popolare riesce ad immaginare. Le grotte in particolare, con i loro recessi oscuri e profondi, hanno fin dall’antichità ispirato sensazioni di timore e di diffidenza. Ma non sono altro che nomi e leggende contrassegnati da una forte matrice pedagogica: palese è dunque, a prescindere dal carattere folcloristico dei toponimi e delle storie a questi connesse, l’intento di convincere chiunque a tenersi lontano da antri senza fondo, da case diroccate e disabitate, da oscure foreste e da montagne difficili da scalare.
La toponomastica locale, oltre che a svariate denominazioni legate alle caratteristiche morfologiche e naturali del territorio, è ricca di curiosi toponimi [2]. Ma è soprattutto il diavolo ad aver lasciato le sue temibili impronte sulla carta geografica brembana. A partire da una delle montagne-simbolo della nostra valle, la più alta, quella ai cui piedi ha origine il fiume Brembo. Una piramide nera, impervia, che incute timore e ammalia allo stesso tempo, e che ben rappresenta il nome attribuitole, forse da qualche antica leggenda, andata perduta nella notte dei tempi. È il Pizzo del Diavolo di Tenda (m. 2916) che con l’adiacente Diavolino (m. 2810), nei pressi del rifugio Calvi, risulta essere una delle vette orobiche più ambite dagli appassionati di alpinismo, invitante e pericolosa, che nella storia è purtroppo divenuta la triste tomba di molti di coloro che han tentato di sfidare la sua acerrima bellezza. Non molto lontano, vicino al rifugio Longo, ecco lo specchio blu del Lago del Diavolo, molto profondo, in cui si rispecchia la cima dell’Aga. Anche qui, non sembra essere sopravvissuta alcuna leggenda, ma una spiegazione di tale nome potrebbe derivare dal fatto che la valle del Lago del Diavolo, e in particolare la zona del Monte Sasso, è ricca di ferro e in passato vi era in quota un forno fusorio che veniva costantemente alimentato con il carbone.
Proprio il fuoco e la fusione del ferro stanno all’origine del toponimo Val d’Inferno, valle che da Ornica sale fin verso il Pizzo dei Tre Signori e che un tempo si chiamava Val Fornasicchio, forse per la presenza, nella sua parte più bassa, di forni e fucine per la lavorazione del ferro estratto dalle miniere della zona. La fantasia popolare non tardò ad associare l’immagine del fuoco di tali impianti a quella dell’Inferno, luogo del fuoco per eccellenza. Narra infatti la leggenda che la maggior parte di quei forni era gestito, in epoca assai remota, da forestieri, forse provenienti dalla Valsassina, che trovandosi a corto di legna o di carbone non si facevano scrupolo di prendere gli abitanti di Ornica che passavano da quelle parti, e che non vedevano di buon occhio, per gettarli vivi nella fornace allo scopo di alimentare il fuoco. Il timore di cadere vittime di quei feroci uomini assalì gli abitanti di Ornica, che pensarono appunto di chiamare quel luogo “Val d’Inferno”. Un paesaggio aspro e spoglio, corsi d’acqua impetuosi, rupi e massi erratici si sostituiscono ai silenti boschi e ai verdi pascoli della bassa valle: forse, lo stesso nome, è dovuto anche alla bizzarra morfologia del territorio. E lo si può ben affermare percorrendola sino all’erta finale che raggiunge la Bocchetta d’Inferno (a quota 2306 metri), dopo aver superato l’inquietante e severa “Sfinge”, l’enorme sperone roccioso che sembra riprodurre il volto enigmatico dell’antico monumento egizio. Sconfinando, poi, nell’alpe valtellinese, ecco adagiarsi tra le cime del Pizzo di Trona e del Pizzo Varrone, a 2085 metri, il Lago dell’Inferno.
Nella stessa zona e per la medesima curiosità, merita di essere citato il Monte Avaro: nulla a che fare con il demonio se si guarda all’etimologia del nome, ma la leggenda che vi sta dietro rievoca un arcano patto col diavolo. Fu infatti il proprietario dei pascoli di questo monte, persona assai gretta e taccagna conosciuta in valle come ol Avarù, a vendergli la propria anima pur di vedere il suo alpeggio più verde e fertile che mai.
Sicuramente l’immaginario popolare avrà nel corso della storia etichettato e attribuito a Belzebù altri luoghi che la topografia ufficiale non ha rilevato, ma che sono rimasti ben vivi nella tradizione orale. Così i nostri avi parlavan della “corna (roccia) del Diavolo”, della “grotta o büsa del diàol”, della “forca del diàol” (indicando una stretta gola o valico naturale, e potrebbe essere il caso del Passo La Forca, nei pressi del Monte Alben), della “ o stala del diàol”, o del consueto “Ponte del Diavolo”, come quello sito nei pressi del tempio romanico di San Tomé, ad Almenno (conosciuto anche come Ponte Tarchì), e che la leggenda vuole sia stato costruito in una sola notte in cambio dell’anima della prima persona che vi sarebbe transitata [3].
Il diavolo non solo ha lasciato il suo nome, ma in certi casi anche le sue impronte… Non è raro, infatti, trovare ancora oggi, lungo i sentieri di montagna, alcune pietre sulle quali sembrano incise delle orme che hanno la forma di grossi zoccoli bovini. Attorno a questi segni, che non sono altro che i resti fossili di grosse conchiglie bivalvi (detti “concodon”), sono nate nel corso dei secoli curiose leggende, attribuendoli al passaggio o alla presenza del diavolo.
Le si possono trovare percorrendo la mulattiera che si snoda tra Aviatico e Costa Serina: ad un certo punto, di fianco alla strada, vi è una pietra di forma rettangolare, piatta, sulla quale sono palesi le impronte di due piedi bovini e la sagoma di una lampada ad olio, di quelle solitamente usate nelle baite di montagna dove la luce elettrica non è mai arrivata. La storia di quella pietra vide per protagonista una giovin donzella di Trafficanti che, nonostante la severa proibizione dei genitori, si recò ugualmente a ballare in una osteria di Aviatico. La notte, nel far ritorno a casa, uno sconosciuto giovanotto si offrì di accompagnarla e arrivati presso la grande pietra, deposto il lume che aveva con sé per rischiarare il cammino, la invitò a ballare su di essa. Ma la ragazza s’accorse che il suo damerino aveva stinchi e piedi bovini: non fece in tempo a fuggire che la pietra si aprì e la inghiottì col suo infernale cavaliere. Stessa sorte toccò ad un’altra giovane, appassionata di ballo, che viveva nella zona tra Miragolo e Perello dove si estende il vasto bosco della Val Pagana, nome più che adatto ad evocare inquietanti presenze. Invano fu il tentativo da parte della famiglia di seguire la ragazza, o di chiuderla in casa. Una notte, venne portata via da un aitante giovanotto che si rivelò poi essere una mostruosa creatura: aveva due occhi infuocati, due piccole corna aguzze sulla testa, il corpo ricoperto di un lungo pelo fulvo, una coda lunga e attorcigliata e due poderosi zoccoli bovini al posto dei piedi. Tra gli occhi terrorizzati dei familiari e le urla angosciose della ragazza, il feroce diavolo, stringendo a sé la giovane vittima, prese il volo buttandosi nello strapiombo che si apre sotto il santuario del Perello. Le fiamme dell’inferno li avvolsero per sempre e sull’orlo del precipizio, impresse nella roccia, rimasero le grandi orme bovine lasciate dal diavolo al momento di spiccare il folle volo.
Anche su una pietra lungo la strada che da Brembilla conduce a Gerosa vi sono gli stessi identici segni: forse il diavolo, impenitente donnaiolo, amava girovagare per le nostre vallate alla ricerca di giovani amanti. Tanto è vero che le nostre nonne, passando per quei luoghi, usavano fare il segno della croce e additare quelle impronte diaboliche alle loro figliole per tenerle lontane dai peccati di vanità e di disobbedienza.

Il signore delle tenebre si presenta oggi con le caratteristiche accreditate dall’iconografia demoniaca occidentale, ovvero corna, occhi infuocati, peluria e odore sulfureo, ma la forma più antica e tradizionale della sua immagine è la figura semiumana o semianimale che deriva dalla mitologia tardo-antica dei fauni, dei satiri, in genere da coloro che abitavano i boschi o le lande desolate e che la superstizione cristiana aveva trasformato in demoni. Figura tipica delle comunità alpine e presente anche nella nostra valle (di cui resta un pregevole affresco presso la casa di Arlecchino ad Oneta di San Giovanni Bianco) è quella dell’homo salvadego, creatura a metà tra l’animale e l’uomo, robusta e irsuta, dall’aspetto terrificante e che taluni non esitarono, per il suo aspetto misterioso e inquietante e per la sua presenza minacciosa, ad equiparare al demonio. La tradizione popolare ne ha tratto una serie di leggende, di cui si sono quasi del tutto perse le tracce, salvo i generici riferimenti all’orco e all’uomo nero. In alta valle, e precisamente a Santa Brigida, si ricorda ancora l’avventura del Rossàl, un uomo solitario, schivo e malvagio, che secondo la leggenda venne portato via dal diavolo in persona.
Il demonio è tradizionalmente accomunato anche ad alcuni animali, in particolare al serpente e al drago. Il serpente, come è noto, è l’animale tentatore per eccellenza, l’aspetto assunto dal diavolo per condurre Eva e poi Adamo verso il peccato. Secondo una diffusa interpretazione, la definizione del diavolo nell’ambito della cultura popolare avrebbe origine nella letteratura devozionale e nella demonizzazione di antiche pratiche pagane, mai completamente estintesi nel tessuto rituale contadino. La tradizione agiografica considera innanzitutto il diavolo, in ogni sua sembianza, tentatore di santi e di persone pie; la lotta contro il drago, ad esempio, non è un tema cristiano, ma affonda le proprie radici nel paganesimo: così, dopo Edipo e Perseo, saranno San Giorgio e San Michele ad assumere l’eredità del combattimento contro il feroce rettile. Un affresco che ritrae tale epica lotta è visibile nell’antica chiesa del Cornello, patria dei Tasso, mentre un altro, risalente al XIII secolo, lo si può ammirare nella chiesa di San Giorgio in Lemine, ad Almenno, dove si trova anche l’enorme costola di un animale, che secondo la tradizione sarebbe appartenuta ad un’enorme creatura che viveva nei pressi del fiume Brembo. In entrambi gli affreschi, San Giorgio monta un cavallo sauro bianco e grigio, con sella e finimenti neri, e con una lunga picca trafigge il capo del drago, interamente rosso, che è alato e riverso al suolo, liberando la Principessa dalle sue brutali fauci [4].
Memorie di antichi draghi non sono rimaste solo nel basso corso del Brembo, ma anche nelle oscure grotte dell’alta valle. Ai piedi del versante nord del monte Filone, all’ombra degli annosi e folti castagni di Santa Brigida, si apre nella viva roccia una profonda grotta, detta volgarmente büsa. Era il soggiorno estivo di un animale di dimensioni colossali, dalla testa enorme e piatta, sormontata da creste ossee coperte di lunghi e lucidi peli color turchino; la bocca era fornita di formidabili denti e di una lingua biforcuta, nel cui mezzo brillava un grosso diamante.
Nel corso dei secoli la fantasia popolare ha pure generato creature infernali come la cavra sbrègiola, animale notturno che nessuno aveva mai visto e che aveva il vizio di rapire e divorare i bambini cattivi; il drago volante, il serpente con la cresta, quello con le ali, e quel marass o scorlèt di cui Traini parla nelle sue Leggende bergamasche e che, nell’estate del 1936, si era insinuato anche tra le colonne di un giornale di Bergamo, a suscitarvi una vivace polemica tra due studiosi di scienze naturali: viperoni grossi quanto un braccio d’uomo e corti altrettanto; c’è chi dava loro una coda biforcuta, chi la testa di gatto, chi la cresta sul capo viperino, chi una specie di alette sui fianchi, vicino al collo, chi due occhi incantatori: tutti erano comunque unanimi nell’attribuire loro un odore acre di vecchio muschio, così forte da togliere il respiro.
Fra rettili e draghi mostruosi, ecco apparire nella tradizione leggendaria brembana altre bestie, feroci e letali, sputate dall’inferno. Se ne occupò persino Bortolo Belotti, nel suo poemetto Val Brembana, in pochi scorrevoli versetti nei quali parla della “Caccia del diavolo” lungo la Müghera, il monte che sta di fronte al Pizzo e al paese di Spino, tra Ambria e San Pellegrino: “Negra di pelo, orribile, con gli occhi / fiammeggianti, vedevasi una cagna / fuggire velocissima ululando; / e dietro ad essa un’affannosa muta / di segugi fantastici, e dovunque / voci d’inferno e strider di catene, / che l’eco ripetea di balza in balza”. Si riferiscono alla leggenda di un gruppo di spettri di cacciatori, maledetti per non aver rispettato i precetti cristiani domenicali e avervi preferito la corsa all’inseguimento di prede braccate dai cani, per valli e per monti. La loro congrega si unisce nel silenzio della notte e si lancia con le bestie infernali in una caccia furibonda attraverso i boschi; solo il suono delle campane del mattino riuscirà a disperderli. Variante della medesima leggenda, è quella della cassa da morto del Diavolo, nella quale feroci cani, piccoli e grossi e mal formati, dagli occhi rossi come carboni accesi e dalle lingue infuocate, portando una cassa diffondevano paura e morte ovunque; un impavido prete vincerà la muta indemoniata e riporterà la tranquillità in valle.
Altre leggende, sempre di ammonimento per chi non santificava le feste, hanno per teatro i luoghi selvaggi e desolati della Valle Stabina, nei pressi di Valtorta, dove le alte pareti che fiancheggiano la strada sprofondano in terribili burroni. Si narra che una domenica mattina, un uomo di Valtorta, invece di andare a messa, decise con alcuni compagni di recarsi in quel luogo impervio per tagliare la legna del suo bosco, situato proprio sul fondo della valle. Uno di loro, si calò con una corda lungo la parete rocciosa, ma presto tutti si accorsero che la corda si allungava sempre più e il burrone diventava sempre più profondo. Tentarono disperatamente di tirarlo su, ma le alte fiamme e gli artigli di una creatura immonda lo strinsero per sempre nella morsa infernale. Si dice che ogni tanto, passando di notte da quelle parti, ancora si possono sentire gli inquietanti lamenti e vedere i bagliori delle fiamme.

Sempre in Valle Stabina, al bivio tra Ornica e Valtorta, su una parete rocciosa a strapiombo sulla valle, si può notare ancor oggi un crocefisso. Fu deposto nel lontano 1909 dal parroco di Valtorta, don Stefano Gervasoni, che possedeva doti di esorcista, dopo un lungo periodo di preghiere collettive e dopo avervi guidato in processione i suoi parrocchiani e quelli di Ornica. Si credeva che in quel punto fossero confinate le anime di coloro che da vivi avevano disertato la dottrina e le pratiche religiose, preferendo ad esse il lavoro o il divertimento. Chi passava da quelle parti, infatti, giunto all’altezza di un ponte, era terrorizzato dalla visione di quegli spiriti dannati o dalle loro tremende urla; persino gli animali si fermavano spaventati, s’infuriavano e impazzivano scrollandosi di dosso la soma e rifiutandosi di avanzare nel loro cammino.
La tradizione popolare brembana, come si è visto, è ricca di racconti e leggende sul diavolo e l’inferno. Non c’è paese che non abbia la sua storia legata ad apparizioni del demonio, dalle sembianze più bizzarre e dagli immancabili zoccoli bovini o caprini. Alcune baite hanno persino mantenuto dei tetri appellativi, come la Baita del Diavolo in Val d’Inferno, dimora di un vecchietto magro e calvo, dalla lunga barba bianca e dagli zoccoli bovini, che invece della polenta aveva il paiolo zeppo di marenghi d’oro; o la Baita della Capra, in quel di Carona, dove due giovani cacciatori ebbero l’insolita visita di un’affascinante Lilith, un diavolo… in gonnella. Sempre viva nella memoria dei nostri vecchi è la storia di due sorelle della Pianca: appartatesi con due sconosciuti giovanotti presso la loro stalla all’ombra delle maestose torri del Cancervo, si accorsero che entrambi avevano zoccoli bovini al posto dei piedi; una delle sorelle riuscì a fuggire e ad avvertire il padre, ma dell’altra non restò che un mucchio di ceneri. Morale della favola: mai dare retta agli sconosciuti, il diavolo si nasconde dove meno ci si aspetta!
Secondo le antiche credenze il diavolo compariva all’improvviso da un evento ritenuto straordinario, come un’esplosione o una tempesta, o insinuandosi, forte dei suoi molteplici aspetti, nella vita quotidiana della gente. La sua opera era vista nella furia del temporale (“il diavolo in carrozza”, così si usava definire il tuono), nella grandine e nel vento, il cui sibilo scivolando tra i massi era simile a lamenti e a voci spettrali; forze naturali, credute soprannaturali, che potevano danneggiare o addirittura distruggere i raccolti di una stagione, disperdere o uccidere il bestiame, rovinare le proprietà.
Il diavolo, insomma, era un po’ dappertutto. Dietro ogni angolo, nei luoghi più oscuri, nella forza della natura, nell’animo della gente. Sino ad infiltrarsi con pertinacia nel linguaggio popolare, nel dialetto, sempre a ribadire il suo arcano e originale significato, che deriva dal latino diabolus e dal greco diábolos (calunniatore, colui che fa del male), o dall’ebraico s’atan (satana, ovvero l’avversario). Proverbi e modi di dire dai toni vivaci e di antica saggezza, patrimonio ormai di pochi e tradizione destinata a sopravvivere ancor qualche giorno nel mondo contadino e valligiano. L’è ol diàol in carne e òss (è il diavolo in carne e ossa), a l’gh’à adòss ol diàol (ha addosso il diavolo), l’è ol diàol in persuna (è il diavolo in persona), l’è tat catìv che l’la öl gna’l diàol (è tanto cattivo che non lo vuole nemmeno il diavolo), a l’ghe n’sa öna piö del diàol (ne sa una di più del diavolo), a l’è impatàt col diàol (ha fatto un patto con il diavolo), a l’ghe la fa gna’l diàol (non lo inganna nemmeno il diavolo), sono tutte espressioni per indicare una persona malvagia o astuta. Non potevano mancare massime legate ai soldi, agli affari, alla vanità: chi gh’à pura del diàol fa miga di sólcc (chi ha paura del diavolo non fa i soldi), bisognerèss ìga di amìs ach a cà del diàol (bisognerebbe avere amici anche a casa del diavolo), a ardà tròp in de spècc, a s’vèd ol diàol (se ci si specchia troppo, si vede il diavolo). E bisogna fare attenzione perché ol diàol a l’cassa i córegn depertöt (il diavolo mette le corna dappertutto), al te pórta vià ‘l diàol coi cadéne foghéte (ti porta via il diavolo con le catene infuocate), s’ga ol diàol in cà (avere il diavolo in casa) e la farina del diàol la fenéss in crösca (la farina del diavolo diventa crusca, a significare che quel che il maligno tocca, distrugge). C’è comunque un diavolo più buono, ü póer diàol, ü diàol bù, o quello che con un pizzico di ironia si dice l’è prope u diàol! (è proprio un diavolo!). Quando non si sta più nella pelle per la fame, per il freddo o per la fretta, spunta nuovamente il diavolo: öna fam, u frècc, öna frèssa del diàol! E quando, infine, i toni vanno un po’ sopra le righe, ognuno di noi avrà ancora sentito il buon lavoratore bergamasco, arrabbiato, imprecare: diàol bès-cia!, diàol cane!, pòrco diàol! Detti ed espressioni tipiche della bergamasca, repertorio di tante rappresentazioni di burattini, dove fra l’altro il diavolo era una presenza costante, sempre appresso alle figure più strambe, dal pazzo al brigante, dal malvagio al traditore.
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E persino Arlecchino, il servo tonto e un po’ ingenuo conosciuto in tutto il mondo, sembrerebbe nascondere dietro il suo volto mascherato un’origine demoniaca. Sarà forse per la sua goffa e leggendaria figura, vicina a quell’homo salvadego da secoli immortalato presso quella che si ritiene essere la sua antica dimora, ad Oneta di San Giovanni Bianco, o forse per l’origine del suo nome, di probabile origine francese: Hellequin, o Herlequin, perfetto richiamo al demone Herlechinus, che nella tradizione letteraria francese medievale rappresentava il demonio [5]. Anche Dante, nella Divina Commedia, parla di un diavolo di nome Alichino, incontrato nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio dell’inferno, e tutta la tradizione popolare dall’alto medioevo in poi ha spesso associato le rappresentazioni di buffoni mascherati al diavolo, un diavoletto comico o “povero diavolo”. Ci risulterà difficile scorgere nelle sembianze di questo buffo personaggio un’anima posseduta dal demonio, anche se la protuberanza nera che ostenta sulla fronte sembrerebbe proprio ricordare le corna di un diavolo…

[1] Per una lettura completa delle antiche storie e delle leggende qui proposte si rimanda alle opere di Tarcisio Bottani e Wanda Taufer Racconti popolari brembani, edito dalla Comunità Montana Valle Brembana, e Storie e leggende della bergamasca (Edizioni Ferrari, Clusone, 2001). Ulteriori riferimenti si possono trovare nel libro di Carlo Traini Leggende Bergamasche (Edizioni Il Conventino, Bergamo, 1979). Una trattazione di tipo storico e antropologico dell’argomento è stata eseguita da Massimo Centini in L’Angelo decaduto. Il diavolo nella religione, nella storia, nell’arte, nel folklore e nella società (De Vecchi Editore, Milano, 2004).
[2] Si pensi al già citato Passo di Baciamorti, tra la Valle Stabina e la Val Taleggio, che secondo alcuni storici deriverebbe il suo nome dall’antica usanza di trasferire ai luoghi d’origine le salme di coloro che si erano trasferiti dall’una all’altra valle: qui, esse, venivano consegnate dai parenti agli abitanti della valle vicina e baciate per l’ultima volta. O a Trabuchello, ad esempio, che deriverebbe dalla parola trabocchetto, per le rupi e le anguste gole situate nei suoi pressi; alla denominazione di Valle dei Frati, nel territorio di Carona, che si è certi abbia origine dal fatto che di lì passavano i Circestensi della badia di Albino. Ed ancora al Pizzo dei Tre Signori, che fu così chiamato per la sua strategica posizione, al confine fra tre stati: la Repubblica Veneta, il Ducato di Milano e la Repubblica dei Grigioni.
[3] Ci si può permettere qui di sconfinare dall’ambito valligiano per render conto di quanto la tradizione sul diavolo sia ben radicata anche al di fuori della Valle Brembana. Ben nota, ad esempio, è la leggenda del Portone del Diavolo. Sulla strada che conduce da Bergamo a Seriate si trova una specie di portale aperto da due larghi stipiti e un alto frontone in pietra di Zandobbio, il quale serve da ingresso al viale che conduce alla casa di campagna di Celadina. Fu costruito nel 1550 da Sandro da Sanga per ordine del Conte Gian Giacomo de’ Tassis, della famiglia dei grandi Bernardo e Torquato, di origini brembane, ai tempi proprietario della casa. La leggenda vuole invece che quella costruzione fosse sorta per opera del diavolo in persona, distrutta e rifatta in una sola notte. Dello sveltissimo muratore infernale nessuna traccia, all’infuori di un forte odore di zolfo che, nelle sere di temporale, si diffonderebbe tutt’attorno al manufatto.
[4] Benché al giorno d’oggi non ne esista più alcuna traccia, se non nella storia dei sedimenti geologici e nelle antiche leggende, gran parte della pianura compresa fra le province di Bergamo, Cremona e Lodi, era in passato il bacino di una vasta area acquitrinosa formata dalle esondazioni dei fiumi Lambro, Adda, Brembo, Serio e Oglio, conosciuta anche con il nome di lago (o mare) Gerundo. Numerose e particolarmente interessanti sono le testimonianze e gli aneddoti relativi a misteriose creature serpentiformi e dall’alito pestifero che ne infestavano le acque, alle quali la tradizione popolare diede il nome di “draghi”. La credenza nella reale esistenza di tali creature è testimoniata da alcuni reperti ossei (presumibilmente appartenenti a elefanti o cetacei) che fanno ancora mostra di sé in diverse chiese stanziate lungo le antiche propaggini dell’antico lago Gerundo. Ai piedi della Val Brembana, oltre che a San Giorgio in Lemine, si conserva un simile reperto presso il Santuario di Sombreno.
[5] Una delle tante ipotesi sull’origine della maschera di Arlecchino sancisce proprio la sua provenienza francese, datandola alla metà del XIV secolo. Secondo la tradizione, un gentiluomo francese, tale conte di Lovence, fuggì dal suo paese e si ritirò in Val Brembana portando con sé un domestico beone e un po’ ingordo. Un giorno, sorpreso a rubare, il servo fu bastonato e condannato ad aggirarsi per i paesi vicini in dorso ad un asino e vestito di toppe di vario colore.