Voluta dal conte Luigi Tadini in memoria dell'unico figlio, morto in giovane età

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L'Accademia di Belle Arti Tadini, uno scrigno d'arte e d'antichità sulle rive del lago d'Iseo
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di Denis Pianetti
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Per la nobile e rinomata famiglia dei conti Tadini, il sogno di una vita serena e tranquilla nella nuova dimora sulle magiche rive del lago Sebino, s’infranse d’improvviso una calda giornata d’estate del 1799. Fu un tragico destino che segnò per sempre la loro esistenza, nonché il futuro del ricco casato e delle proprietà che gli appartenevano. Eppure, su quella sventura nacque un’iniziativa, una tradizione, che perdura nel tempo e che ancora oggi considerata una delle principali testimonianze storiche e culturali della splendida cittadina lacustre.

Discendente da una famiglia patrizia cremasca, il conte Luigi Tadini, era da poco venuto in possesso, per via ereditaria, dell’antico palazzo Barboglio, nel cuore storico di Lovere, già proprietà di Scipione Barboglio de Gaioncelli, un violento signorotto appartenente ad una illustre famiglia locale e vissuto tra il ‘500 e il ‘600. L’eredità comprendeva l’antica dimora di famiglia, eretta verso la metà del XVI secolo, nonché strutture ben più antiche, anche se piuttosto dismesse, ad essa inglobate.
Quella dei Tadini fu una illustre famiglia presente nel bergamasco già a partire dal 1381 con Antoniolo da Caravaggio, abitante in Brignano e cittadino di Bergamo. Luigi Tadini, che nacque a Verona nel 1754 e morì a Lovere nel 1829, acquisì il titolo comitale in seguito alle nozze con Libera Moronati, contessa di Salizzole (borgo del veronese), dalla quale ebbe, nel 1774, l’unico figlio ed erede del casato, Faustino Gherardo. In quel di Crema, il conte Tadini, si distinse per i vivi interessi culturali e scientifici, ma soprattutto per la sua entusiastica adesione alla Rivoluzione Francese, accogliendo l’esercito repubblicano nel 1797 e diventando Capo Legione della Guardia Nazionale [1].
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Nel 1799, mentre i Tadini si apprestavano a trascorrere la stagione estiva nella dimora di Lovere, il crollo improvviso di un’ala del palazzo, ancora in corso di ristrutturazione, travolse ed uccise il giovane Faustino. Aveva solo venticinque anni. Il conte, che in seguito a quel fatto aveva abbandonato Lovere, vi fece ritorno intorno al 1817, consacrando alla memoria del giovane una cappella e disponendo che il suo patrimonio e le sue collezioni d’arte, raccolte tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, fossero messe a disposizione della comunità attraverso la fondazione di un istituto di belle arti, con finalità educative: un edificio che servisse non solo per l’esposizione delle collezioni, ma anche come scuola di arte, di disegno, di musica. L’intero progetto fu affidato all’architetto Sebastiano Salimbeni, nipote della moglie del Tadini e la sua realizzazione avvenne tra il 1821 e il 1826.
La Cappella gentilizia dei Tadini venne costruita nel silenzio di un giardino, stretta tra le due ali della nuova costruzione, situata accanto alla residenza ereditata dai Barboglio (sull’attuale piazza Garibaldi). Il conte seguì da vicino i lavori del palazzo dell'Accademia, proponendo varie soluzioni statiche e funzionali. Il palazzo, affacciato con il suo lungo prospetto sulle rive del lago d’Iseo, ha due piani ed è realizzato in stile neoclassico con elementi di tradizione veneta. Stile che ampiamente conserva ancora oggi, con pareti e soffitti che furono dipinti nel 1826 da Luigi Dell’Era secondo una tecnica a tempera su carta, poi applicata su tela, solitamente in uso per realizzare scenografie teatrali.

Nel 1826, a conclusione dell’opera, fu posta sullo scalone d’ingresso una lapide che consacrava il palazzo alle arti, alle lettere e alle scienze naturali, tutte categorie che avrebbero rappresentato le collezioni esposte. Collezioni che il conte Tadini cominciò a trasferire da Crema a partire dal 1827. L’anno successivo, per tenere vivo il ricordo del figlio ed il nome del casato, istituì la “Accademia di Belle Arti Tadini”, comprendente oltre alla pinacoteca e al museo, la scuola di disegno e quella di musica [2].
Il monumento dedicato a Faustino Tadini rappresenta il cuore dell’Accademia, punto di partenza ideale per l’edificazione del complesso. La celebrazione delle sepolture degli uomini illustri, consacrata dal poemetto I Sepolcri di Ugo Foscolo (pubblicato a Brescia nel 1807), trova qui una concreta manifestazione. Per la scultura destinata a rendere immortale la memoria del figlio il conte Tadini si rivolse ad Antonio Canova, della cui opera Faustino era stato tra i primi critici: nel 1796 infatti aveva pubblicato un volumetto dedicato alle sculture canoviane, con commento in versi e in prosa. Fu forse per questa ragione, e per onorare un rapporto che il carteggio tra lo scultore e il giovane fanno intendere di amicizia, che Canova, allora considerato il massimo artista vivente, accettò l’incarico offertogli dal conte Tadini di scolpire il cenotafio commemorativo. La stele riprende il tema classico della madre dolente che piange davanti all’urna cineraria: “In questa donna – commentò al tempo il conte Tadini – lo scultore raffigurò le sembianze della madre, la quale vide coi propri occhi perire il figlio” [3]. Lo scultore curò anche la sistemazione del monumento, suggerendo una luce radente per accentuare i morbidi trapassi plastici del rilievo. Il marmo, concluso nell’ottobre 1820, giunse a Lovere l’anno successivo, e fu inaugurato con una solenne cerimonia pubblica, durante la quale lo scultore fu celebrato con un inno poetico: “sarai sempre d’ogni secolo / gran Canova lo stupor”.

Il museo dell’istituto di Belle Arti Tadini, è oggi un raro esempio di galleria di primo Ottocento e raccoglie una serie di collezioni, da quella archeologica a quella grafica, di dipinti e sculture, di mobili e arazzi, di strumenti musicali, vetri e porcellane, medaglie, armi e armature; tutte trassero origine dalla passione per il collezionismo del conte, frutto di acquisti e scambi di cui abbondava il mercato antiquario d’inizio Ottocento.
In particolare, la pinacoteca comprende importanti dipinti di scuola lombarda e veneta del XV e del XVI secolo, tra cui opere di Lorenzo Veneziano, Jacopo Bellini, Domenico Tintoretto, il Parmigianino, Domenico Morone, Paris Bordon, Bernardino Campi e, per le epoche successive, dipinti di Giacomo Ceruti, detto il “Pitocchetto”, di Giandomenico Tiepolo, Francesco Hayez, Cesare Tallone. Espone inoltre importanti pezzi delle manifatture di Sèvres, Meissen, Hochst, Capodimonte.

Il progetto del conte Luigi Tadini si inquadrava perfettamente nel vivace dibattito culturale sulla funzione educativa del museo, sostenuto da istanze di tipo illuminista e da un forte senso civico, che interessa i principali centri lombardi tra Sette e Ottocento. Alcuni aristocratici, consapevoli della funzione educativa dell’arte, cominciarono ad aprire al pubblico le proprie collezioni dove erano raccolti capolavori che dovevano servire da modello alle nuove generazioni di artisti, la cui formazione avveniva nelle annesse scuole di pittura, scultura, disegno. Nel giro di pochi anni, accanto e su modello dell’Accademia di Brera, di fondazione statale (1776), nacquero gli “stabilimenti” o “istituti” di Belle Arti di origine privata: un panorama ampio e complesso, che finì per comprendere l’Accademia Carrara a Bergamo (1795), la Pinacoteca di Paolo Tosio a Brescia (1832), lo Stabilimento di Belle Arti Malaspina a Pavia (1833), l’Istituto Ala Ponzone a Cremona (1842), tutte istituzioni che sono all’origine dell’attuale sistema museale lombardo.
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La Galleria dell’Accademia è oggi ritenuta una tra le principali collezioni lombarde e ospita una fra le più attive scuole di musica che dal 1927 promuove una importante rassegna musicale, affidata ad interpreti di altissimo livello. L’Accademia musicale svolge un regolare anno scolastico e organizza corsi di perfezionamento per violinisti, violoncellisti e cantanti lirici; nella sua sala principale si tengono ogni anno, ad aprile e a maggio, concerti di musica da camera. Esiste anche, all’interno del palazzo, un laboratorio di restauro in grado di assicurare la costante manutenzione dei dipinti della pinacoteca, nonché di opere esterne appartenenti sia ad enti pubblici che privati.
Il dipartimento archeologico e la biblioteca hanno mantenuto l’allestimento di età neoclassica, con vetrine e scansie originali, mentre la Galleria delle armi è stata rivista nel secondo dopoguerra secondo un gusto tipico del primo romanticismo.
L’ultima sala del percorso museale, la XXIII, ovvero l’antica biblioteca, è forse quella più segreta ed interessante. Segreta perché ancora chiusa alla visita e alla consultazione, in attesa che il locale e gli arredi vengano restaurati e, soprattutto, che una nuova catalogazione renda nota e accessibile la rara e considerevole raccolta di libri. Qui, infatti, nelle originali alte scaffalature di stile neoclassico, il conte Tadini raccolse i suoi libri: testi di letteratura, storia, arte, scienze; un patrimonio che comprende incunaboli del Quattrocento, preziose stampe originali e raffinate edizioni illustrate risalenti al primo Ottocento. Un pregiato tesoro a cui si aggiunsero più tardi i lasciti di don Paolo Macario, primo direttore dell’Accademia, e quello di altre importanti personalità, fino a formare un patrimonio stimato oggi in circa ottomila volumi.

Questa fu la passione del conte Luigi Tadini, la cui memoria fu scolpita in un solenne monumento di marmo innalzato al centro della sala che precede la sua amata biblioteca, la numero XXII. Fu commissionato nel 1839 allo scultore Giovanni Maria Benzoni da Odoardo Bazzini, all’epoca amministratore dell’Accademia, e consegnato nel 1858. Il giovane Benzoni, che fu educato presso l’Accademia di Lovere ed in seguito inviato a Roma per un soggiorno di studio, si affermò in breve tempo tanto da divenire uno tra i più richiesti scultori della città eterna. Nella figura marmorea di Luigi Tadini, che solleva un bimbo indirizzandolo alle “belle arti”, simboleggiate dalla tavolozza e dagli strumenti musicali, l’artista celebrò la memoria del proprio benefattore, dando vita ad una immagine emblematica del ruolo educativo che l’aristocrazia illuminata intendeva svolgere nei confronti della popolazione. Un concetto che conoscerà nella seconda metà dell’Ottocento la sua massima manifestazione e che il conte, non potendolo trasmettere all’unico amato figlio, non disdegnò di lasciarlo in eredità con orgoglio e passione alla sua gente.

[1] Nel 1798 in un infuocato discorso affermava: “Cittadini, noi tutti siamo Popolo: le usurpazioni della vana Aristocrazia e dell'orribile Dispotismo scomparvero ai sacri nomi di Libertà e di Uguaglianza”. Ciò non gli impedì, nel 1816, di rendere omaggio all’imperatore d’Austria, Francesco I, invitandolo a Crema a visitare le proprie collezioni d'arte: evento ricordato in una lapide in latino tuttora conservata presso l’Accademia.
[2] Il 4 marzo 1828 il conte Tadini dettava il suo testamento, pubblicato il 22 maggio 1829, nel quale dava disposizioni per la fondazione dell’Istituto di Belle Arti Tadini, articolato in una galleria per ospitare le collezioni d’arte, la scuola di musica “istrumentale e vocale” e una scuola di disegno.
[3] Luigi Tadini, Descrizione generale dello Stabilimento dedicato alle Belle Arti in Lovere dal conte Luigi Tadini cremasco, Milano, 1828, p. 79

La storica nevicata del gennaio 1985: tra mito e nostalgia, la cronaca di quei giorni

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L'ultimo vero colpo del Generale Inverno
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di Denis Pianetti
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Sono pochi a non ricordare, tra il nostalgico e l'epico, la grande nevicata che paralizzò l'Italia e in particolare Bergamo e il milanese nel gennaio del 1985: scuole e uffici chiusi, impossibilità alle auto di circolare, improvvisa, e imprevista, solidarietà tra i passanti, alberi carichi di una neve che cadeva inarrestabile su cittadini inesperti nell'affrontare questo clima da alta montagna.
Quell’anno era cominciato con un freddo fuori da ogni norma con valori che raggiunsero temperature minime, a seconda delle località, di oltre –15 °C e massime di –5 °C anche in pianura (quando il valore medio del medesimo periodo si attestava intorno ai –2,5 °C di temperatura minima ed i + 5 °C di temperatura massima) [1]. Una prima leggera nevicata, fino a quasi 20 centimetri al suolo, si ebbe verso la fine dell’anno precedente, ovvero il 27 dicembre 1984, con una ulteriore spruzzata di pochi centimetri il 9 gennaio 1985, quando la temperatura minima raggiunse i –11 °C mentre la massima non superava i –3 °C. Nulla faceva presagire a quanto sarebbe accaduto di li a pochi giorni, intenti più che altro ad osservare le colonnine di mercurio dei termometri ed il ghiaccio persistente: oltre quindici giorni di temperature rigide, sia di notte che di giorno, avevano come trasformato la neve precedentemente caduta in scivolose lastre di marmo; immaginabili, di conseguenza, i disagi su strade e marciapiedi, i problemi al riscaldamento e lo scoppio delle condutture dell’acqua; come non ricordare i pittoreschi ghiaccioli che ornavano le grondaie dei palazzi, le strade trasformate in piste di ghiaccio, laghi, fiumi e torrenti ghiacciati per lunghi tratti.
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Le condizioni meteorologiche non presentarono sostanziali cambiamenti, se si eccettua il breve episodio del 9 gennaio, sino a quasi la metà di gennaio: freddo pungente e assenza di precipitazioni.
Poi la svolta. Le correnti in quota cominciarono a cambiare direzione, portando un leggero rialzo termico sia nelle minime che nelle massime, e soprattutto molte nubi cariche di neve su tutto il nord Italia. Fu così che il 14 gennaio, con una temperatura minima di –7 °C ed una massima di –1 °C, la neve cominciò a cadere ininterrottamente, lasciando al suolo circa trenta centimetri in 24 ore. Ne scesero ulteriori quindici il giorno seguente, e altri venticinque il giorno 16, con la tendenza, dovuto al lento rialzo delle temperature, a divenire bagnata e pesante. In pochi giorni si accumulò al suolo un manto di oltre ottanta centimetri in città, e di oltre un metro nelle valli, tenendo conto di quanto era rimasto della nevicata di fine anno. Vennero impiegati mezzi cingolati della “Legnano” per spalare la neve e nel tentativo di spezzare la crosta di ghiaccio. Inestimabili furono i danni alle aziende: nei giorni successivi la neve appesantita dalle piogge causò in provincia il crollo dei tetti di duecento capannoni.

Un panorama magico e irreale si presentò a chi si affacciava dalla finestra la mattina del 17 gennaio 1985. Tutto era coperto dalla spessa coltre bianca, le auto letteralmente sepolte dalla neve, i treni diretti a Milano e a Brescia bloccati, i tetti e gli alberi appesantiti, tanto che non mancarono improvvisi crolli, soprattutto dei tetti delle vecchie cascine, e alberi e rami divelti o spezzati. Un bianco abbagliante avvolgeva tutto, e ben presto si iniziò a sentire il rumore dei tanti impegnati a spalare le strade per renderle più percorribili, poi sostituiti da ruspe e mezzi spazzaneve. Scuole, uffici e aeroporti chiusi, e ai lati delle strade e nei piazzali la neve accumulata superava anche i tre metri di altezza, tanto che il successivo mese di aprile era ancora lì ad ornare e a rinfrescare il paesaggio. Una nevicata d’altri tempi, dal carattere eccezionale per le località poste in pianura e che ha senza alcun dubbio lasciato traccia nei ricordi di tutti. L’intero nord Italia, ad eccezione della Valtellina che a causa del naturale sbarramento esercitato dalle Orobie vide proprio pochi fiocchi (Bormio in particolare l’attendeva con impazienza, visto che era stata scelta per ospitare i mondiali di sci), era stato sommerso dalla neve: tra i 70 e i 100 centimetri di neve a Milano, 90 a Bologna città, ben 130 sulle colline bolognesi e 150 a Trento città (dove venne superato, di poco, il record del 1929).

Subito si fecero i confronti con le ondate di neve del passato. Nell'inverno gelido del lontano 1894-95 caddero circa 90 centimetri di neve, in 25 giorni nevosi. Nel 1886-87 ne caddero 70, in 13 giorni di neve. Dopo la sfuriata invernale del 1929, altro singolare evento si registrò a metà febbraio del 1933, quando la città fu coperta da una coltre bianca alta 80 centimetri. Come non ricordare, poi, il febbraio 1956 quando si registrò un’ondata di freddo eccezionale in tutto il paese (storica fu la nevicata a Roma), che non diede tregua fra gelide temperature e violente bufere di neve per una ventina di giorni. L'inverno tra il 1977 e il 1978 va ricordato per l'alto numero (almeno una decina) di eventi nevosi che furono registrati su tutta l’Italia settentrionale. Si arriva quindi al mitico gennaio 1985 e poi, dopo quasi venti inverni dal clima piuttosto asciutto, ecco giungere tra il 26 e il 28 gennaio 2006, sempre nell'Italia settentrionale, un'altra nevicata eccezionale. La sua particolarità fu che, pur essendo meno abbondante e più breve di quella del 1985, durò metà del tempo (36-40 ore), ma fece registrare un'intensità e una velocità d'innalzamento del manto nevoso da primato: in città si raggiunse quasi il mezzo metro di altezza, mentre superò il metro in montagna. Quest'ultimo evento può essere considerato come la nuova nevicata del secolo (il XXI secolo). Di eventi nevosi parlando, come non ricordare infine uno dei più recenti colpi di coda dell’inverno: i 20 centimetri di neve farinosa caduti a Bergamo città il 3 marzo 2005 (anche se i nostri vecchi raccontano di un non lontano passato con abbondanti nevicate già a primavera inoltrata e persino di qualche bianco giorno di Pasqua).
Nota curiosa del gelido inverno del 1985, fu l’allarmismo, addirittura catastrofico, con il quale si accolse la storica nevicata, nonché l’ondata di freddo intenso che ne preparò la strada. I meteorologi di quel tempo iniziarono a preoccuparsi constatando che i cicli glaciali stavano per imporsi nuovamente sul nostro pianeta, dando il via a una nuova fase di raffreddamento del clima generale.
“Ogni centomila anni c'è un'Era Glaciale, seguita da diecimila anni di interglaciale, e, adesso, questo periodo è finito. Basterebbe un'estate fredda, non in grado di sciogliere tutta la neve dell'inverno, e ciò potrebbe costituire un’ottima "memoria" per creare un altro inverno rigido. Una serie di due-tre inverni rigidi potrebbe essere in grado di innescare una nuova glaciazione!". Queste erano le preoccupazioni degli scienziati ventitre anni or sono, mentre l'Effetto Serra era relegato ad una marginale ipotesi di lavoro discussa solo raramente tra gli specialisti.
Eppure, oggigiorno, nonostante quell’ipotesi potesse anche rivelarsi plausibile rivisitando la cronaca di quelle bianche e pungenti giornate, la nevicata del gennaio 1985 è entrata a far parte dei nostri ricordi. Anche con un pizzico di nostalgia.

[1] L'inverno tra il dicembre 1984 e il gennaio 1985 fu particolarmente rigido, caratterizzato da temperature sempre più basse, a causa di un'anomalia termica della stratosfera che provocò il congiungimento dell'anticiclone delle Azzorre con quello polare, permettendo la discesa di aria artica marittima sull'Europa. Praticamente tutta l'Europa era nel gelo. In Groenlandia era "primavera": Nuuk registrò una massima di 2 °C, nel sud dell'isola si registrarono 8 °C. Mentre la "pugnalata" fredda si spingeva in pochi giorni fin nel deserto algerino.
A partire dal 5 gennaio, una massiccia ondata di gelo proveniente dall'artico russo (più precisamente dal mare di Kara) raggiunse il mar Mediterraneo, avanzando con estrema velocità. L'ondata di gelo in un primo momento provocò estese nevicate sull’Italia centrale (Roma compresa) e, in misura minore, in Pianura Padana (sebbene non si trattasse di fenomeni eccezionali per il clima dell'Italia Settentrionale). A causa dell'inversione termica e dell'effetto albedo, le temperature minime in Toscana ed Emilia-Romagna raggiunsero e superarono i –20 °C. (Firenze arrivò a –23 °C, Parma a –25 °C). Successivamente, tra il 14 ed il 17 gennaio 1985, una depressione centrata sul mar della Corsica provocò quella che (assieme alle altre che seguirono nei giorni immediatamente successivi) è ancor oggi ricordata come la nevicata del secolo.

Le sue tele nelle collezioni di Re Faruk, Reza Pahlavi, Aldo Moro e Soraja

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Il pittore della realtà Rino Pianetti, erede di Baschenis e di Caravaggio
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di Denis Pianetti
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“Alto e massiccio, i capelli fluenti sulle spalle, l’occhio fiero e dignitoso da antico moschettiere, pare un personaggio balzato alla realtà dalle pagine vive e avventurose di Alessandro Dumas”. Così il critico d’arte Antonino de Bono descrive il maestro di levatura internazionale Rino Pianetti, “pittore della realtà”, da alcuni definito anche “il Caravaggio contemporaneo”, all’indomani della mostra personale tenutasi presso l’ambita Galleria d’Arte Bolzani di Milano fra il gennaio e il febbraio del 1980 [1]. Un artista che, all’epoca, già si era imposto con successo all’attenzione della critica nazionale e internazionale e aveva fatto della sua straordinaria dote un vero e proprio mestiere. Come lui stesso dirà “la pittura è mestiere; non credo all’ispirazione. Ci credo solo per la poesia: ispirazione iniziale, perché poi, anche lì, subentra il mestiere”.
Originario della Valle Brembana, Rino Pianetti nasce a Sesto San Giovanni il 19 aprile 1920 e trascorre la sua infanzia fra i nonni materni a Tirano, in Valtellina, e i genitori a Milano. È qui che viene a contatto con la dura e cruda realtà della città moderna, della nascente metropoli: la macchina industriale, le vie trafficate, il divario fra ricchezza e povertà, tra vecchio e nuovo, la malavita, la prostituzione. Un mondo lontano e diverso da quello pacifico e generoso della baita di Dom Bastone, in Valtellina, o degli alpeggi brembani che è solito visitare in compagnia del padre.

“Sono stato un bambino ribelle, indisciplinato, non amavo la scuola, mi piacevano solo l’italiano e il disegno”, così si rivela nel 1982 in un’intervista per la rivista d’arte Italia Artistica. “Se non è retorico dirlo, sono proprio nato con il sacro fuoco: in quinta elementare ho fatto il ritratto alla maestra, tutto di getto. Ero pieno di inventiva, forse disegnavo meglio di adesso, avevo un segno rapido, immediato. Quando avevo diciotto anni mio padre non voleva saperne: macché pittura, bisogna lavorare! Così cominciai a vendere – non per niente vengo da una famiglia di commercianti – e presto mi resi indipendente”.
Timido e triste di natura, ma dal carattere forte e aggressivo, quasi crudo al primo impatto, matura ben presto un modo di conversare da erudito discreto, non invadente, ma spesso polemico. Inizia a frequentare l’Accademia di Brera, ma poi scoppia la guerra e Pianetti è arruolato nel terzo bersaglieri. Dapprima inviato sui fronti di Francia e Jugoslavia, fa in seguito tutta la campagna di Russia, vivendo il dramma della ritirata e la morte dell’unico fratello rimasto, Carlo (l’altro muore di meningite in tenera età). Dirà in seguito: “ho provato a fare disegni sulla memoria, poi ho distrutto tutto, erano falsi, è impossibile rendere quello che ho visto di persona…”. Al ritorno dalla Russia, forzato dai rastrellamenti in città, entra a far parte di un nucleo di partigiani di stanza nei pressi di Colico.

Dopo il periodo bellico completa i suoi studi presso l’Accademia delle Belle Arti di Amsterdam, ove si è diplomato. Sul finire degli anni Quaranta debutta con opere di tendenza impressionista, risultato delle sue ricerche e delle sue frequenti visite a musei olandesi e belgi, fortemente influenzato e affascinato dalla pittura dei grandi maestri fiamminghi. Risalgono a quest’epoca le sue prime mostre personali e collettive: nel 1948 al Tapié di Parigi; nel 1949 allo Stedelijk Museum di Amsterdam, al Palais de Versailles a Versailles, all’Achard de Voiron di Parigi.
Il suo rientro in Italia coincide con la personale presso la Galleria Pro Arte di Bergamo, tenutasi nel 1952, alla quale seguono quelle al Kursaal di Lugano, al Circolo degli Artisti di Luino, alla Galleria Ranzini di Milano, quest’ultima nel 1954. Le sue opere continueranno, nel frattempo, a percorrere le strade d’Europa, con le mostre al Palais Azurara di Lisbona, nel 1954; all’International Art Treasures Exhibition di Londra, nel 1961; alla Galerie Motte di Ginevra, nel 1962. Fra le tante organizzate nel milanese, sono da ricordare quelle alla Galleria Sagittario del 1966, all’Ars Italica nel 1968 e nel 1971, alla Galleria Bolzani nel 1980 (per realizzare quest’ultima mostra si rifiutò di vendere per ben due anni). La popolarità e l’apprezzamento delle opere di Rino Pianetti raggiungono in questi anni il loro apice, tanto che il Comune di Milano decide, nel 1983, di conferirgli l’Ambrogino d’Oro, la massima onorificenza cittadina. Il resto dei suoi anni li vive in modo appartato, sempre meno sulla scena, ma dedicando, come in passato, dodici, tredici ore giornaliere e anche più al suo mestiere, la pittura. Alla sua morte, avvenuta a Milano il 9 maggio 1992, le sue ceneri sono tumulate tra “i cittadini noti e benemeriti” del Cimitero Monumentale di Milano.

Affrontare oggi uno studio approfondito sulla pittura di Rino Pianetti è impresa quanto mai improba, possibile solo attraverso le recensioni e le riviste d’arte dei primi anni Ottanta. L’enorme patrimonio artistico del “pittore della realtà”, così lui stesso amava definirsi, si è infatti disperso, oltre che nei musei, nelle varie collezioni private italiane e straniere, come già si era verificato per il primo periodo del maestro (periodo impressionista) che va dal 1938 al 1960. Le sue tele fanno parte di collezioni importanti: Re Faruk d’Egitto, Scià Mohammed Reza Pahlavi, Soraja, Aldo Moro, Alighiero Benvidas (ministro spagnolo della giustizia), Stefano Colombo, Otto Hauftmann di Berlino, Costanzo Gaetano di San Francisco, Victor Nauffal di Beirut e molte altre personalità dell’industria, dello sport, del cinema e del teatro. Rino Pianetti è considerato, insieme al pittore di origine armena Sciltian (1900-1985) e al ritrattista Annigoni (1910-1988), uno dei massimi esponenti del realismo contemporaneo, un realismo caratterizzato da una forma pittorica che esalta la purezza del disegno, la precisione prospettica, la meticolosa ricerca del colore e lo studio rigoroso della luce. Il suo indirizzo pittorico, a parte i famosi ritratti a grandi personalità italiane e straniere, si basa sulla ricerca del particolare e sullo studio analitico della materia, prediligendo una tematica puramente verista. Egli guarda gli oggetti con lo stupore del poeta, ma li rappresenta nella loro realtà immediata, viva e palpitante, senza metafore e senza simbolismi.

Il Pianetti nasce e vive a Milano, viaggia in Europa, i suoi orizzonti sono aperti al mondo, ma il suo sguardo è spesso rivolto alla sua terra d’origine, la bergamasca, e la Valle Brembana in particolare [2]. In lui rivivono i sentimenti e le espressioni dei grandi maestri della pittura, del Baschenis, del Caravaggio. Egli è però artista del nostro tempo, ed ecco apparire accanto a violini e liuti (il riferimento al Baschenis è qui assai evidente) due paia di occhiali, il Corriere della Sera, due scarpette rosse (“Scarpette rosse”, 1977). E guardando l’opera “Rapsodia Estiva” (1984) non si può non pensare ai grappoli d’uva del “Bacco” di Caravaggio: chicco per chicco, ne traspare la fragranza, la trasparenza, il sapore; eppure quest’uva non l’ha copiata, è sua, talmente reale da essere vera.
Nature morte, soggetti floreali, composizioni con strumenti musicali, ritratti di persone, nudi femminili. La sua tematica spazia in ogni campo e si arricchisce, nella fase più recente della sua attività artistica, di un mondo che non è estraneo alla sua formazione psicologica: il mondo contadino della montagna, un mondo semplice e puro, ancor lungi dall’essere macchiato dagli infidi segni della civiltà moderna. Questo mondo è rappresentato con prodigiosa perfezione di memoria e di osservazione, si riveste di naturalezze espressive tipiche della civiltà agreste e della vita di tutti i giorni, con l’uomo e gli animali che qui vivono e lavorano. È la realtà, linda e naturale, della montagna valtellinese, quella materna, quella osservata dalla rustica baita di Dom Bastone – così come appare nelle opere “Lassù dove la vita è amore” e “L’ora della mungitura” (1982) – ma ancor più della montagna brembana, quella paterna, quella delle origini, che vive tuttavia con forte e malinconico distacco [3]. Rino Pianetti ama la valle e la sua gente, perché umile, lavoratrice, ancorata alla tradizione. È dalle sue frequenti peregrinazioni in terra brembana, sugli alpeggi e nei paesi dell’alta valle, che nascono opere significative come “Mandriano bergamasco” (1979), il ritratto di un vecchio dall’aspetto saggio e affettuoso i cui occhi, accorti e bonari, risaltano dall’incarnato bronzeo acquisito nelle altitudini montane e le cui mani, capaci e rugose, magistralmente eseguite dall’artista, ben rappresentano l’arduo lavoro quotidiano. Potenza evocativa che ugualmente emerge dall’olio “Pastorello bergamasco”, ma anche ne “L’attesa” e “I due cuccioli” (1979). Tutto è intriso dai segni del tempo, ogni particolare viene portato alla luce con scrupolo certosino: la vecchia porta, le mura intonacate della stalla, i mattoni sbrecciati, le pietre, gli strumenti del lavoro contadino. L’eccezionale ed abile maestria traspare dalle pieghe degli indumenti, dalla sofficità del lungo pelo degli animali, dalle fessure e dalle crepe del legno e del cemento; e, a non bastare, ecco la nuda realtà, gli effetti che l’artista ha aggiunto alla scena per portare l’opera ad essere contemporanea: i blue-jeans, il sacchetto di plastica.
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L’elemento moderno, contemporaneo, è una costante nell’arte di Rino Pianetti: lo si incontra nelle tele che rievocano il Baschenis, nelle nature morte, nelle composizioni con gli oggetti della vita quotidiana, i libri, la pipa, l’immancabile paio di occhiali. Questi elementi ovviamente non compaiono accentrati e a disposizione, il più delle volte sono a se stanti e vanno ricercati e trovati. Sono oggetti, ma talvolta anche messaggi di una realtà, attuale e sincronica, che traspare in particolar modo nei quadri che raffigurano la campagna lombarda, quella milanese, sferzata più di altri luoghi, causa la vicinanza alla metropoli, dal vento triste e corrotto della modernità. Il soggetto, in questo caso, fa da tramite nel racconto pittorico ed entra in una sfera socio-politico-esistenziale tesa a sottolineare il contrasto fra il costume di vita tradizionale e l’invadenza progressista dei mass-media e del consumismo pratico e ideologico. Si notino, a questo proposito, il manifesto pubblicitario di una lavatrice nell’opera “Lavatoio di paese” (1983), il simbolo delle Brigate Rosse tracciato sul muro decrepito di un cascinale in “Ora pro nobis” (1983), o ancora il bambino in blue-jeans, in “Amici per la pelle” (1983), nell’atto di fare pipì contro un muro sul quale è affisso un invito alla marcia della pace, mentre alle sue spalle galleggia placida in una pozza la tipica lattina rossa della Coca-Cola.
Una realtà studiata e narrata nei minimi dettagli. È questo il segreto di Rino Pianetti: l’arte diviene l’essere delle cose, assume un valore metafisico, si ferma l’immagine della “realtà-verità”. Un’arte che è insicurezza del presente e incertezza del futuro, dove pervade il tema ricorrente e morboso del tempo che passa, della morte. È il senso del presente fuggevole, quello che Leonardo sentiva al toccare l’acqua di un fiume: “è l’ultima di quella che viene, la prima di quella che va. Così il tempo presente”.

Il linguaggio evocativo di Pianetti si snoda dunque attraverso un rigore costruttivo imperniato su varie tematiche psicologiche e formali. Il suo occhio attento e diligente agisce da flash tanto all’esterno sulla realtà, quanto all’interno, nel sentimento, nella memoria. Con rispetto ed umiltà studia la foglia e il petalo, il frutto o il tronco, la mano o i capelli, la goccia, la cenere, il tessuto; studia la materia, che sia legno o vetro, ferro o pietra; studia il corpo umano e animale; studia il cielo e la montagna. La gente lo ricorda mentre con attenzione scruta e studia le porte di legno, i catenacci, le pietre e i mattoni delle vecchie baite di montagna o delle cascine della campagna milanese. O quando, nelle osterie, trova dei volti che lo ispirano e li ritrae sul luogo, incurante del chiasso e della curiosità dei presenti. Così è nato, per esempio, “I compagnoni” (1978), grande quadro di tre ubriachi colti ciascuno nell’espressione del momento: uno con la bocca sdentata aperta nel canto, quello centrale con le labbra serrate in ghigno ostile, il terzo che ride stupidamente. Di verghiano verismo è invece “Nando il barbone” (1979), dalle rughe scavate e dallo sguardo compassionevole: “era un barbone del Verziere, ha posato per me ma non ha mai accettato una lira. Solo Vodka” dirà il pittore in un’intervista [4]. E, parlando di ritratti, non si possono non citare “Omaggio al Vecio (Cavaliere di V.V.)” (1980), volto fiero e vissuto dell’anziano genitore, e “Baciccia il pescatore” (1974), che tuttavia alcuni attribuiscono al volto triste e sofferto di un parente molto stretto.

Realtà che è verità, realtà che è memoria, ma realtà che è anche poesia e sentimento. È quella addolcita nella morbidezza delle carni, nel malinconico abbandono del corpo femminile, rappresentato nella sua completa nudità, di tre fra le più importanti e apprezzate opere di Rino Pianetti. Tre scene, molto affini, nelle quali l’amore è sempre triste, è sempre fine; la felicità non è che un attimo fuggente – così crede e dice l’artista – è l’attimo di un sogno. “Inatteso addio” (1976), “Inizio di una fine” (1978), “Fine di un sogno” (1981): tre opere, forti ed evocative, dove il pathos si accentra sull’inerte, vinto e rassegnato atteggiamento della donna dipinta di spalle, il capo reclino sulle proprie braccia come se piangesse, e la lettera nemica, origine dell’amaro tormento. Qui l’artista giostra impeccabilmente sulla luce che avvolge e invade il corpo della donna e che rischiara l’ambiente sfarzoso e opulento che la circonda, fatto di tappeti e tappezzerie, piante ornamentali e mobili antichi.
Questo è Rino Pianetti, pittore della realtà. L’essenza della sua arte è oggi fermata nelle parole da lui stesso incise nella pietra – pietra che ormai ha preso il suo nome, Sasso Pianetti – presso la rustica baita di Dom Bastone, a 2114 metri: “Ascolta il silenzio del cielo, il linguaggio del vento, il canto della fonte, inebriati di questi colori. Ricrederai che al di là e al di sopra del volere degli uomini esiste un’unica, assoluta, inconfutabile realtà: l’amore”.

[1] Rino Pianetti, Pittore della realtà in Arte più Arte, n. 2, marzo-aprile 1980.
[2] L’affetto per i luoghi d’origine lo porta a tenere due mostre molto significative, che riscuotono un meritevole successo: la prima si tiene presso la biblioteca comunale di San Giovanni Bianco nel 1978, mentre la seconda presso la Galleria Berna di San Pellegrino Terme nel 1984. Per alcune sue opere lo si può collegare idealmente alla grande tradizione pittorica brembana che, tra i “pittori della realtà”, annovera Baschenis e Ceresa.
[3] Rino Pianetti è nipote diretto del truce e leggendario Simone, efferato “giustiziere” che nell’estate del 1914 uccise a fucilate ben sette persone nei paesi di San Giovanni Bianco e Camerata Cornello. La triste vicenda, ragione per la quale la famiglia ha poi lasciato la valle trasferendosi nel milanese, non è altro che un brutto ricordo che si ripresenta in lui ad ogni ritorno, proprio perché ha infelicemente condizionato la sua infanzia e la vita della famiglia; non ama parlarne, tant’è che neanche la critica, vuoi per rispetto, vuoi per sua esplicita richiesta, fa alcun riferimento all’episodio. Riguardo alla scomparsa del nonno, ovvero alla sua fuga oltreoceano e a un suo ipotetico ritorno in Italia, egli ha sempre riportato la certezza del padre, unico e ultimo dei familiari a raggiungerlo sul monte Pegherolo, dove appunto si pensa sia morto.
[4] Il vero realismo di Rino Pianetti in Prospettive d’arte, Febbraio 1982.

Quando elefanti e tigri popolavano la media Valle Seriana. La scoperta nel 1864

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Quell'elefante preistorico trovato nella lignite di Leffe
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di Denis Pianetti
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"... La mattina del 7 del passato mese noi eravamo a Leffe, e la meraviglia nostra non fu piccola quando scorgemmo le gigantesche zanne che ci si offersero allo sguardo. Giacevano esse impegnate per metà nel combustibile nel senso della lunghezza, avvicinate per la porzione alveolare, divergenti per la punta e per modo collocate che l'una si infossava verticalmente nella lignite, l'altra giaceva sopra un piano orizzontale. Questa si mostrava spezzata e contorta per la lenta si, ma enorme pressione sofferta. Dallo stesso piano del gradino di lignite vedevansi spuntare delle ossa, che furono riconosciute per due coste, e per l'ulna, ed altre troppo poco sporgenti per essere determinate. Framezzo alle radici delle due difese, di cui l'una misurava due metri e mezzo di lunghezza, giacevano delle ossa scomposte che non s'ardì scoprire sul sito, ma si ritenne dover appartenere al capo...."

Era il lontano 18 dicembre 1864 quando la notizia di una sensazionale e alquanto curiosa scoperta veniva data al pubblico presente ad una seduta della Società Italiana di Scienze Naturali: riguardava il ritrovamento di resti fossili di Mammuthus (o Elephas) meridionalis, un’antica specie di elefante, oggi estinto, detto anche “elefante del caldo”, che viveva nella vallata oltre un milione e mezzo di anni fa, quando la temperatura si manteneva ancora a livelli pressoché tropicali.

L’importante e singolare testimonianza fossile venne alla luce nei sedimenti di un antico bacino lacustre, risalente al periodo pleistocenico e formatosi a causa di una diga naturale, che occupava gran parte dell’incavo della Val Gandino, e più propriamente, il basso territorio su cui, oggi, sorge l’abitato di Leffe. Data la bassa ubicazione del sito, già più di un milione di anni fa, si susseguirono nel luogo bacini paludosi e acquitrinosi; tuttavia, la formazione del lago vero e proprio è stata originata dalle antiche alluvioni del fiume Serio nel periodo postglaciale (Olocene) quando lo stesso, come scrisse l’insigne geologo Antonio Stoppani, “alimentato dalla grande riserva d’acqua dei ghiacciai che si scioglievano, trasportò a valle ingenti quantità di ciottoli morenici e di roccia friabile, terrazzandoli, poi, presso il confluente Romna, costruendo l’altopiano di Casnigo che, chiudendo completamente lo sfogo della valletta di Leffe, diede alla stessa la forma di un bacino chiuso, obbligando il Romna stesso a rigurgitare e a convertirsi in lago artificale…”. Se si osserva attentamente dall’alto la stessa configurazione della vallata, si può facilmente trar conferma che in un lontano passato era essa il bacino di un grande serbatoio di acqua.
Col passare degli anni sul fondo di quel lago si depositarono alberi divelti dai monti circostanti e trasportati dalle antiche acque; essi furono poi coperti da diversi strati di terriccio e di argilla subendo, così coperti dalla terra, le trasformazioni mineralogiche che li ridussero col tempo in giacimenti di lignite [1].
L’argine che conteneva le acque di quel grande lago cedette, fra la punta dell’Agro di Casnigo e quella di Prato Colle, circa 350 mila anni fa. Da allora l’incavo della valle andò svuotandosi lentamente, lasciando tuttavia per alcune migliaia di anni, una vasta palude sul punto più basso, quello corrispondente all’attuale territorio di Leffe.
Ancora oggi l’esistenza di quel lago è ampiamente confermata da diverse prove materiali. Tutte le piante erbacee trovate fossilizzate sono esclusivamente acquatiche e lacustri, come la “Typha” ed il “Butumus”; sono state poi scoperte, tra le fibre del materiale fossilizzato, anche numerose conchiglie lacustri. Tale materiale, rinvenuto oltre cento anni fa, è stato ampliamente studiato dai geologi dell’epoca, dando loro la possibilità di fornire una datazione certa e ulteriori ipotesi e notizie circa le fasi climatiche del passato più antico della vallata.
Fu grazie ai sedimenti di lignite che è stato possibile scoprire anche interessanti ed appariscenti resti fossili di carcasse di animali appartenenti, come scrisse il Maironi da Ponte nei suoi studi inerenti alla geologia del territorio bergamasco, “…con tutta certezza a qualche de’ maggiori poppanti terrestri o marini…”. Fra quei fossili spiccano quelli di Leptobos etruscus, Rhinoceros leptorhinus, Bos etruscus, Cervus affinis, Cervus ctenodeis e Emys europeae. Animali mastodontici che, per la sete, si avvicinarono ai fanghi del bacino, rimanendo in qualche modo imprigionati nello stesso fango mobile, e quindi inghiottiti.
Nell’estate del 1868, sempre a Leffe, furono rinvenuti i resti fossilizzati di uno scheletro, frantumato, ma quasi intero, di pachiderma o mastodonte, detto Elephas primigenius, o “Mammuth del freddo”, dalla pelle spessa e con cinque dita per ciascun piede. Un esemplare, questo, di un genere ormai estinto, che si avvicina molto agli attuali elefanti e che si ritiene già contemporaneo all’uomo detto preistorico. La profondità in cui i suoi resti furono rinvenuti, ovvero compressi entro lo strato più basso della torba, fa presupporre che esso abbia popolato la valle fino a poche migliaia di anni fa [2].

La maggior parte dei fossili vegetali ed animali rinvenuti nel territorio di Leffe e della Val Gandino furono trasportati a Milano presso il Museo di Storia Naturale, dove purtroppo vennero distrutti e dispersi durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Alcuni reperti e calchi degli originali sono oggi conservati presso il Museo di Scienze Naturali di Bergamo: vi sono infatti una mandibola lunga 70 cm., un piede lungo 44 cm., un dente lungo 20 cm. ed una zanna lunga 2,45 metri. Durante la fine degli anni Ottanta del secolo scorso, il nascente e comune interesse verso lo studio dei fossili, ha permesso ad alcuni studiosi collaboratori del Museo di Scienze Naturali di Bergamo e di quello di Storia Naturale di Milano di riaprire il caso dei reperti fossili provenienti dalla Val Gandino e di addentrarsi nei magazzini del museo del capoluogo lombardo per vedere se qualcosa si era miracolosamente salvato dai bombardamenti. La sorpresa giunse solo alcuni anni fa, nel 2002, quando vennero rinvenuti e identificati gli strani denti di un mammifero e più precisamente quelli appartenenti ad una tigre. Si presume, quindi, che in quella zona, oltre che ad elefanti, rinoceronti, ippopotami e cervidi, vivessero anche delle tigri; l’ambiente forestale ed il clima temperato caldo erano sicuramente l’habitat ideale anche per questo tipo di animali [3].
Nel passato più recente, lo sfruttamento dei giacimenti di lignite è stato purtroppo condotto in modo molto disordinato, senza tenere conto delle reali possibilità di giungere a nuove ed interessanti scoperte come quelle avvenute a fine Ottocento. Sicuramente, il sottosuolo di questa stupenda vallata custodisce altri segreti; ma, per ora, rimarranno segreti come lo è il mistero del tempo più antico.

Bibliografia
- Airaghi C., L'Elefante del Bacino di Leffe in Val Seriana (Elephas meridionalis, Nesti) (Con una tavola), Museo Civico di Storia Naturale, Bergamo, 1914, Vol. 53, Fasc. 1, Pag. 165
- Cornalia, Emilio, Sull'elefante trovato nella lignite di Leffe, Milano, 1865.
- Ghirardelli Aldo, Leffe e le sue chiese, Leffe, 1984
- L'Eco di Bergamo, Quella con i denti a sciabola viveva in Val Gandino, 1 giugno 2004
- Masoli Ilaria (Università di Padova), Gli antichi bacini lacustri e i fossili di Leffe, Ranica e Pianico-Sellere, Leffe, 2002
- http://www.museoscienzebergamo.it/

[1] La lignite è un minerale appartenente alla famiglia del carbone ed è un fossile ancora immaturo, dal colore giallastro, bruno o nero, imbevuto di acqua e di impurità, nel quale si riconosce ancora il legno. Contiene il 40-45% circa di carbonio e pertanto brucia male e produce poco calore. I giacimenti di lignite risalgono al terziario, raramente al secondario.
[2] La torba, propria delle zone paludose, ha iniziato il suo processo di ossidazione soltanto alcune migliaia di anni fa e si trova ancora imbevuta di molta acqua (presenta infatti un aspetto pressoché spugnoso).
[3] Da L’Eco di Bergamo del 01 giugno 2004: “Quella con i denti a sciabola viveva in Val Gandino”.
Anche Bergamo aveva la sua tigre. E che tigre! Già dal nome che le è stato assegnato se ne intuisce la ferocia: la tigre dai denti a sciabola o, se può incutere meno timore, dai denti a pugnale. Il tempo in cui abitava la media Valle Seriana, precisamente quella che era la zona lacustre di Leffe, è assai lontano. Si parla di un milione e mezzo di anni fa. Ma le abitudini di questo animale della specie dei megantereon si possono facilmente intuire dai resti che sono giunti fino a noi. «Era sicuramente carnivora - dice il professor Cesare Ravazzi, che è ricercatore al Consiglio nazionale per le ricerche e insegna paleontologia vegetale al corso di laurea in Scienze naturali all'Università statale di Milano - e viveva in un ambiente forestale quale poteva essere la zona della Val Gandino a quel tempo, temperato caldo, non molto dissimile da quello attuale. I denti a sciabola, o a pugnale, che ne hanno determinato il nome, sono gli incisivi. Insieme alle tigri vivevano in quella zona altri mammiferi come elefanti, rinoceronti, ippopotami e cervidi. L'uomo non c'era ancora, ovviamente. Dobbiamo pensare che le tracce dei primi ominidi in Europa risalgono a circa 800 mila anni fa e i fossili lo collocano in Spagna. Ma se ci fosse stato credo che non avrebbe abitato volentieri a Leffe con una vicina come questa tigre».
La ricostruzione della storia della tigre dai denti a pugnale di Leffe ha diversi elementi interessanti. A differenza degli altri animali, i cui resti ritrovati nelle miniere di lignite sono stati studiati già nel secolo scorso, l'esistenza della tigre è rimasta nascosta fino al 2002. «I denti della tigre sono rimasti fino al 1943 nei laboratori del Museo di Scienze naturali di Milano in attesa di essere studiati e catalogati. Poi con i bombardamenti che hanno colpito l'istituto si è pensato che il materiale recuperato dal sito di Leffe fosse andato irrimediabilmente perduto. Fino a 15 anni fa, quando l'Istituto per la dinamica dei processi ambientali (che aveva sede in Città Alta di fronte al Museo di Scienze naturali) ha riaperto lo studio dei fossili della Val Gandino in collaborazione con i Musei di Scienze naturali di Bergamo e di Milano, e ha provato ad addentrarsi nei magazzini del museo del capoluogo per vedere se qualcosa si era miracolosamente salvato».
Ad occuparsi della sezione dei mammiferi è arrivata dall'università di Padova la ricercatrice Marzia Breda che, sotto il coordinamento del prof. Ravazzi, ha identificato gli strani denti di un mammifero e con pazienza e precisione è giunta a ricostruire la struttura della nostra tigre.
È stata una grande soddisfazione per l'equipe bergamasca, che ha riversato molta energia nella ricostruzione di tutto l'ambiente dove viveva questo splendido animale. Ma c'è di più: ha appena aperto i battenti, al municipio di Leffe, una mostra dal titolo «L'antico lago, le ligniti e i fossili di Leffe». «In questa mostra - racconta il professor Ravazzi - si illustrano gli antichi ambienti ricostruiti in base al polline fossile, ai resti di mammiferi e agli altri fossili. Spesso si pensa che gli animali come la tigre, i rinoceronti e gli elefanti potessero vivere solo in ambienti come la savana, ma questi studi dicono che non è così. Gli animali si adattano al clima e all'ambiente molto più di quello che pensiamo. Nell'ambito della mostra c'è proprio la ricostruzione della tigre dai denti a pugnale, opera di Ilaria Masoli dell'Università di Padova, già presentata nel volume "Gli antichi bacini lacustri e i fossili di Leffe, Ranica e Pianico-Sellere"».
La tigre non abitava solo la zona di Leffe. «La nostra fortuna - conclude Ravazzi - è stata quella di ritrovare proprio nella nostra terra la testimonianza fossile. È probabile però che in tutta la zona delle Prealpi, nei siti in cui c'erano situazioni climatiche simili a quelle della Val Gandino, vivessero altre tigri insieme a tutti gli animali che abbiamo citato». Anche nella nostra terra, insomma, è aperta la caccia alla tigre!

Antiche leggende, toponimi, strane impronte e creature. E persino Arlecchino...

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Il diavolo e l'inferno nella tradizione popolare brembana
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di Denis Pianetti
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La tradizione popolare brembana conserva un patrimonio di usanze e di leggende molto antiche che rappresentano in qualche misura la memoria di avvenimenti lontani, eventi che hanno lasciato un’impronta indelebile nei luoghi e nella cultura della valle. Gran parte di questo folclore ha connotazioni di carattere macabro ed è posto in relazione al demonio, alle streghe, agli spiriti, alla morte. Una tradizione che perdura ancor oggi nella toponomastica locale, nel dialetto popolare, ma soprattutto in quel ricco e antico florilegio di storie e di leggende tramandate di generazione in generazione, fino ai giorni nostri [1]. E se luoghi come la Val d’Inferno, il Pizzo e il Lago del Diavolo o il Passo di Baciamorti incutono timori e rievocano in noi oscure storie di anime confinate, di uomini con i piedi di capra e di preti esorcisti, nessuno mai sospetterebbe che il personaggio più buffo e giocondo della nostra valle, il leggendario Arlecchino, avesse legami nientemeno che… con il diavolo!
Se la rappresentazione di certe macabre tradizioni scaturisce dalle angoscie umane, l’aspetto del “demoniaco”, nell’accezione più ampia del termine, ha da sempre permeato la fantasia della gente, intrisa di quel tormento e di quella dannazione che diviene latente espressione del fantastico.

Il demonio assume nella storia varie forme e varie vesti, subendo continue mutazioni anche a causa dell’evoluzione dei tempi, da creatura mostruosa in continuo contatto con l’uomo, con il quale stringerebbe patti peccaminosi e sacrileghe amicizie, ad angelo traditore, elegante cavaliere o femmina seducente, sino a raggiungere il culmine durante i processi per stregoneria, ove le numerose condannate parlavano del diavolo sotto forma di gatti, rospi, serpenti, draghi e basilischi. La lotta contro il demone-dragone diventa fin da subito un topos nelle rappresentazioni sacre e nell’iconografia occidentale e a partire dai secoli bui del Medioevo, secoli di paure e superstizioni, la figura diabolica diviene reale e persecutrice, permeando ancor di più i racconti e le leggende popolari e contribuendo ad arricchire ulteriormente la toponomastica locale di epiteti legati al temibile mondo di Lucifero.
Sono questi i luoghi del diavolo, luoghi caratterizzati da aspetti particolarmente aspri e considerati pericolosi, misteriosi e inquietanti per la loro conformazione. Luoghi da evitare, dove vivono demoni, streghe, mostri, fantasmi, folletti, selvatici, banditi e quant’altro la fantasia popolare riesce ad immaginare. Le grotte in particolare, con i loro recessi oscuri e profondi, hanno fin dall’antichità ispirato sensazioni di timore e di diffidenza. Ma non sono altro che nomi e leggende contrassegnati da una forte matrice pedagogica: palese è dunque, a prescindere dal carattere folcloristico dei toponimi e delle storie a questi connesse, l’intento di convincere chiunque a tenersi lontano da antri senza fondo, da case diroccate e disabitate, da oscure foreste e da montagne difficili da scalare.
La toponomastica locale, oltre che a svariate denominazioni legate alle caratteristiche morfologiche e naturali del territorio, è ricca di curiosi toponimi [2]. Ma è soprattutto il diavolo ad aver lasciato le sue temibili impronte sulla carta geografica brembana. A partire da una delle montagne-simbolo della nostra valle, la più alta, quella ai cui piedi ha origine il fiume Brembo. Una piramide nera, impervia, che incute timore e ammalia allo stesso tempo, e che ben rappresenta il nome attribuitole, forse da qualche antica leggenda, andata perduta nella notte dei tempi. È il Pizzo del Diavolo di Tenda (m. 2916) che con l’adiacente Diavolino (m. 2810), nei pressi del rifugio Calvi, risulta essere una delle vette orobiche più ambite dagli appassionati di alpinismo, invitante e pericolosa, che nella storia è purtroppo divenuta la triste tomba di molti di coloro che han tentato di sfidare la sua acerrima bellezza. Non molto lontano, vicino al rifugio Longo, ecco lo specchio blu del Lago del Diavolo, molto profondo, in cui si rispecchia la cima dell’Aga. Anche qui, non sembra essere sopravvissuta alcuna leggenda, ma una spiegazione di tale nome potrebbe derivare dal fatto che la valle del Lago del Diavolo, e in particolare la zona del Monte Sasso, è ricca di ferro e in passato vi era in quota un forno fusorio che veniva costantemente alimentato con il carbone.
Proprio il fuoco e la fusione del ferro stanno all’origine del toponimo Val d’Inferno, valle che da Ornica sale fin verso il Pizzo dei Tre Signori e che un tempo si chiamava Val Fornasicchio, forse per la presenza, nella sua parte più bassa, di forni e fucine per la lavorazione del ferro estratto dalle miniere della zona. La fantasia popolare non tardò ad associare l’immagine del fuoco di tali impianti a quella dell’Inferno, luogo del fuoco per eccellenza. Narra infatti la leggenda che la maggior parte di quei forni era gestito, in epoca assai remota, da forestieri, forse provenienti dalla Valsassina, che trovandosi a corto di legna o di carbone non si facevano scrupolo di prendere gli abitanti di Ornica che passavano da quelle parti, e che non vedevano di buon occhio, per gettarli vivi nella fornace allo scopo di alimentare il fuoco. Il timore di cadere vittime di quei feroci uomini assalì gli abitanti di Ornica, che pensarono appunto di chiamare quel luogo “Val d’Inferno”. Un paesaggio aspro e spoglio, corsi d’acqua impetuosi, rupi e massi erratici si sostituiscono ai silenti boschi e ai verdi pascoli della bassa valle: forse, lo stesso nome, è dovuto anche alla bizzarra morfologia del territorio. E lo si può ben affermare percorrendola sino all’erta finale che raggiunge la Bocchetta d’Inferno (a quota 2306 metri), dopo aver superato l’inquietante e severa “Sfinge”, l’enorme sperone roccioso che sembra riprodurre il volto enigmatico dell’antico monumento egizio. Sconfinando, poi, nell’alpe valtellinese, ecco adagiarsi tra le cime del Pizzo di Trona e del Pizzo Varrone, a 2085 metri, il Lago dell’Inferno.
Nella stessa zona e per la medesima curiosità, merita di essere citato il Monte Avaro: nulla a che fare con il demonio se si guarda all’etimologia del nome, ma la leggenda che vi sta dietro rievoca un arcano patto col diavolo. Fu infatti il proprietario dei pascoli di questo monte, persona assai gretta e taccagna conosciuta in valle come ol Avarù, a vendergli la propria anima pur di vedere il suo alpeggio più verde e fertile che mai.
Sicuramente l’immaginario popolare avrà nel corso della storia etichettato e attribuito a Belzebù altri luoghi che la topografia ufficiale non ha rilevato, ma che sono rimasti ben vivi nella tradizione orale. Così i nostri avi parlavan della “corna (roccia) del Diavolo”, della “grotta o büsa del diàol”, della “forca del diàol” (indicando una stretta gola o valico naturale, e potrebbe essere il caso del Passo La Forca, nei pressi del Monte Alben), della “ o stala del diàol”, o del consueto “Ponte del Diavolo”, come quello sito nei pressi del tempio romanico di San Tomé, ad Almenno (conosciuto anche come Ponte Tarchì), e che la leggenda vuole sia stato costruito in una sola notte in cambio dell’anima della prima persona che vi sarebbe transitata [3].
Il diavolo non solo ha lasciato il suo nome, ma in certi casi anche le sue impronte… Non è raro, infatti, trovare ancora oggi, lungo i sentieri di montagna, alcune pietre sulle quali sembrano incise delle orme che hanno la forma di grossi zoccoli bovini. Attorno a questi segni, che non sono altro che i resti fossili di grosse conchiglie bivalvi (detti “concodon”), sono nate nel corso dei secoli curiose leggende, attribuendoli al passaggio o alla presenza del diavolo.
Le si possono trovare percorrendo la mulattiera che si snoda tra Aviatico e Costa Serina: ad un certo punto, di fianco alla strada, vi è una pietra di forma rettangolare, piatta, sulla quale sono palesi le impronte di due piedi bovini e la sagoma di una lampada ad olio, di quelle solitamente usate nelle baite di montagna dove la luce elettrica non è mai arrivata. La storia di quella pietra vide per protagonista una giovin donzella di Trafficanti che, nonostante la severa proibizione dei genitori, si recò ugualmente a ballare in una osteria di Aviatico. La notte, nel far ritorno a casa, uno sconosciuto giovanotto si offrì di accompagnarla e arrivati presso la grande pietra, deposto il lume che aveva con sé per rischiarare il cammino, la invitò a ballare su di essa. Ma la ragazza s’accorse che il suo damerino aveva stinchi e piedi bovini: non fece in tempo a fuggire che la pietra si aprì e la inghiottì col suo infernale cavaliere. Stessa sorte toccò ad un’altra giovane, appassionata di ballo, che viveva nella zona tra Miragolo e Perello dove si estende il vasto bosco della Val Pagana, nome più che adatto ad evocare inquietanti presenze. Invano fu il tentativo da parte della famiglia di seguire la ragazza, o di chiuderla in casa. Una notte, venne portata via da un aitante giovanotto che si rivelò poi essere una mostruosa creatura: aveva due occhi infuocati, due piccole corna aguzze sulla testa, il corpo ricoperto di un lungo pelo fulvo, una coda lunga e attorcigliata e due poderosi zoccoli bovini al posto dei piedi. Tra gli occhi terrorizzati dei familiari e le urla angosciose della ragazza, il feroce diavolo, stringendo a sé la giovane vittima, prese il volo buttandosi nello strapiombo che si apre sotto il santuario del Perello. Le fiamme dell’inferno li avvolsero per sempre e sull’orlo del precipizio, impresse nella roccia, rimasero le grandi orme bovine lasciate dal diavolo al momento di spiccare il folle volo.
Anche su una pietra lungo la strada che da Brembilla conduce a Gerosa vi sono gli stessi identici segni: forse il diavolo, impenitente donnaiolo, amava girovagare per le nostre vallate alla ricerca di giovani amanti. Tanto è vero che le nostre nonne, passando per quei luoghi, usavano fare il segno della croce e additare quelle impronte diaboliche alle loro figliole per tenerle lontane dai peccati di vanità e di disobbedienza.

Il signore delle tenebre si presenta oggi con le caratteristiche accreditate dall’iconografia demoniaca occidentale, ovvero corna, occhi infuocati, peluria e odore sulfureo, ma la forma più antica e tradizionale della sua immagine è la figura semiumana o semianimale che deriva dalla mitologia tardo-antica dei fauni, dei satiri, in genere da coloro che abitavano i boschi o le lande desolate e che la superstizione cristiana aveva trasformato in demoni. Figura tipica delle comunità alpine e presente anche nella nostra valle (di cui resta un pregevole affresco presso la casa di Arlecchino ad Oneta di San Giovanni Bianco) è quella dell’homo salvadego, creatura a metà tra l’animale e l’uomo, robusta e irsuta, dall’aspetto terrificante e che taluni non esitarono, per il suo aspetto misterioso e inquietante e per la sua presenza minacciosa, ad equiparare al demonio. La tradizione popolare ne ha tratto una serie di leggende, di cui si sono quasi del tutto perse le tracce, salvo i generici riferimenti all’orco e all’uomo nero. In alta valle, e precisamente a Santa Brigida, si ricorda ancora l’avventura del Rossàl, un uomo solitario, schivo e malvagio, che secondo la leggenda venne portato via dal diavolo in persona.
Il demonio è tradizionalmente accomunato anche ad alcuni animali, in particolare al serpente e al drago. Il serpente, come è noto, è l’animale tentatore per eccellenza, l’aspetto assunto dal diavolo per condurre Eva e poi Adamo verso il peccato. Secondo una diffusa interpretazione, la definizione del diavolo nell’ambito della cultura popolare avrebbe origine nella letteratura devozionale e nella demonizzazione di antiche pratiche pagane, mai completamente estintesi nel tessuto rituale contadino. La tradizione agiografica considera innanzitutto il diavolo, in ogni sua sembianza, tentatore di santi e di persone pie; la lotta contro il drago, ad esempio, non è un tema cristiano, ma affonda le proprie radici nel paganesimo: così, dopo Edipo e Perseo, saranno San Giorgio e San Michele ad assumere l’eredità del combattimento contro il feroce rettile. Un affresco che ritrae tale epica lotta è visibile nell’antica chiesa del Cornello, patria dei Tasso, mentre un altro, risalente al XIII secolo, lo si può ammirare nella chiesa di San Giorgio in Lemine, ad Almenno, dove si trova anche l’enorme costola di un animale, che secondo la tradizione sarebbe appartenuta ad un’enorme creatura che viveva nei pressi del fiume Brembo. In entrambi gli affreschi, San Giorgio monta un cavallo sauro bianco e grigio, con sella e finimenti neri, e con una lunga picca trafigge il capo del drago, interamente rosso, che è alato e riverso al suolo, liberando la Principessa dalle sue brutali fauci [4].
Memorie di antichi draghi non sono rimaste solo nel basso corso del Brembo, ma anche nelle oscure grotte dell’alta valle. Ai piedi del versante nord del monte Filone, all’ombra degli annosi e folti castagni di Santa Brigida, si apre nella viva roccia una profonda grotta, detta volgarmente büsa. Era il soggiorno estivo di un animale di dimensioni colossali, dalla testa enorme e piatta, sormontata da creste ossee coperte di lunghi e lucidi peli color turchino; la bocca era fornita di formidabili denti e di una lingua biforcuta, nel cui mezzo brillava un grosso diamante.
Nel corso dei secoli la fantasia popolare ha pure generato creature infernali come la cavra sbrègiola, animale notturno che nessuno aveva mai visto e che aveva il vizio di rapire e divorare i bambini cattivi; il drago volante, il serpente con la cresta, quello con le ali, e quel marass o scorlèt di cui Traini parla nelle sue Leggende bergamasche e che, nell’estate del 1936, si era insinuato anche tra le colonne di un giornale di Bergamo, a suscitarvi una vivace polemica tra due studiosi di scienze naturali: viperoni grossi quanto un braccio d’uomo e corti altrettanto; c’è chi dava loro una coda biforcuta, chi la testa di gatto, chi la cresta sul capo viperino, chi una specie di alette sui fianchi, vicino al collo, chi due occhi incantatori: tutti erano comunque unanimi nell’attribuire loro un odore acre di vecchio muschio, così forte da togliere il respiro.
Fra rettili e draghi mostruosi, ecco apparire nella tradizione leggendaria brembana altre bestie, feroci e letali, sputate dall’inferno. Se ne occupò persino Bortolo Belotti, nel suo poemetto Val Brembana, in pochi scorrevoli versetti nei quali parla della “Caccia del diavolo” lungo la Müghera, il monte che sta di fronte al Pizzo e al paese di Spino, tra Ambria e San Pellegrino: “Negra di pelo, orribile, con gli occhi / fiammeggianti, vedevasi una cagna / fuggire velocissima ululando; / e dietro ad essa un’affannosa muta / di segugi fantastici, e dovunque / voci d’inferno e strider di catene, / che l’eco ripetea di balza in balza”. Si riferiscono alla leggenda di un gruppo di spettri di cacciatori, maledetti per non aver rispettato i precetti cristiani domenicali e avervi preferito la corsa all’inseguimento di prede braccate dai cani, per valli e per monti. La loro congrega si unisce nel silenzio della notte e si lancia con le bestie infernali in una caccia furibonda attraverso i boschi; solo il suono delle campane del mattino riuscirà a disperderli. Variante della medesima leggenda, è quella della cassa da morto del Diavolo, nella quale feroci cani, piccoli e grossi e mal formati, dagli occhi rossi come carboni accesi e dalle lingue infuocate, portando una cassa diffondevano paura e morte ovunque; un impavido prete vincerà la muta indemoniata e riporterà la tranquillità in valle.
Altre leggende, sempre di ammonimento per chi non santificava le feste, hanno per teatro i luoghi selvaggi e desolati della Valle Stabina, nei pressi di Valtorta, dove le alte pareti che fiancheggiano la strada sprofondano in terribili burroni. Si narra che una domenica mattina, un uomo di Valtorta, invece di andare a messa, decise con alcuni compagni di recarsi in quel luogo impervio per tagliare la legna del suo bosco, situato proprio sul fondo della valle. Uno di loro, si calò con una corda lungo la parete rocciosa, ma presto tutti si accorsero che la corda si allungava sempre più e il burrone diventava sempre più profondo. Tentarono disperatamente di tirarlo su, ma le alte fiamme e gli artigli di una creatura immonda lo strinsero per sempre nella morsa infernale. Si dice che ogni tanto, passando di notte da quelle parti, ancora si possono sentire gli inquietanti lamenti e vedere i bagliori delle fiamme.

Sempre in Valle Stabina, al bivio tra Ornica e Valtorta, su una parete rocciosa a strapiombo sulla valle, si può notare ancor oggi un crocefisso. Fu deposto nel lontano 1909 dal parroco di Valtorta, don Stefano Gervasoni, che possedeva doti di esorcista, dopo un lungo periodo di preghiere collettive e dopo avervi guidato in processione i suoi parrocchiani e quelli di Ornica. Si credeva che in quel punto fossero confinate le anime di coloro che da vivi avevano disertato la dottrina e le pratiche religiose, preferendo ad esse il lavoro o il divertimento. Chi passava da quelle parti, infatti, giunto all’altezza di un ponte, era terrorizzato dalla visione di quegli spiriti dannati o dalle loro tremende urla; persino gli animali si fermavano spaventati, s’infuriavano e impazzivano scrollandosi di dosso la soma e rifiutandosi di avanzare nel loro cammino.
La tradizione popolare brembana, come si è visto, è ricca di racconti e leggende sul diavolo e l’inferno. Non c’è paese che non abbia la sua storia legata ad apparizioni del demonio, dalle sembianze più bizzarre e dagli immancabili zoccoli bovini o caprini. Alcune baite hanno persino mantenuto dei tetri appellativi, come la Baita del Diavolo in Val d’Inferno, dimora di un vecchietto magro e calvo, dalla lunga barba bianca e dagli zoccoli bovini, che invece della polenta aveva il paiolo zeppo di marenghi d’oro; o la Baita della Capra, in quel di Carona, dove due giovani cacciatori ebbero l’insolita visita di un’affascinante Lilith, un diavolo… in gonnella. Sempre viva nella memoria dei nostri vecchi è la storia di due sorelle della Pianca: appartatesi con due sconosciuti giovanotti presso la loro stalla all’ombra delle maestose torri del Cancervo, si accorsero che entrambi avevano zoccoli bovini al posto dei piedi; una delle sorelle riuscì a fuggire e ad avvertire il padre, ma dell’altra non restò che un mucchio di ceneri. Morale della favola: mai dare retta agli sconosciuti, il diavolo si nasconde dove meno ci si aspetta!
Secondo le antiche credenze il diavolo compariva all’improvviso da un evento ritenuto straordinario, come un’esplosione o una tempesta, o insinuandosi, forte dei suoi molteplici aspetti, nella vita quotidiana della gente. La sua opera era vista nella furia del temporale (“il diavolo in carrozza”, così si usava definire il tuono), nella grandine e nel vento, il cui sibilo scivolando tra i massi era simile a lamenti e a voci spettrali; forze naturali, credute soprannaturali, che potevano danneggiare o addirittura distruggere i raccolti di una stagione, disperdere o uccidere il bestiame, rovinare le proprietà.
Il diavolo, insomma, era un po’ dappertutto. Dietro ogni angolo, nei luoghi più oscuri, nella forza della natura, nell’animo della gente. Sino ad infiltrarsi con pertinacia nel linguaggio popolare, nel dialetto, sempre a ribadire il suo arcano e originale significato, che deriva dal latino diabolus e dal greco diábolos (calunniatore, colui che fa del male), o dall’ebraico s’atan (satana, ovvero l’avversario). Proverbi e modi di dire dai toni vivaci e di antica saggezza, patrimonio ormai di pochi e tradizione destinata a sopravvivere ancor qualche giorno nel mondo contadino e valligiano. L’è ol diàol in carne e òss (è il diavolo in carne e ossa), a l’gh’à adòss ol diàol (ha addosso il diavolo), l’è ol diàol in persuna (è il diavolo in persona), l’è tat catìv che l’la öl gna’l diàol (è tanto cattivo che non lo vuole nemmeno il diavolo), a l’ghe n’sa öna piö del diàol (ne sa una di più del diavolo), a l’è impatàt col diàol (ha fatto un patto con il diavolo), a l’ghe la fa gna’l diàol (non lo inganna nemmeno il diavolo), sono tutte espressioni per indicare una persona malvagia o astuta. Non potevano mancare massime legate ai soldi, agli affari, alla vanità: chi gh’à pura del diàol fa miga di sólcc (chi ha paura del diavolo non fa i soldi), bisognerèss ìga di amìs ach a cà del diàol (bisognerebbe avere amici anche a casa del diavolo), a ardà tròp in de spècc, a s’vèd ol diàol (se ci si specchia troppo, si vede il diavolo). E bisogna fare attenzione perché ol diàol a l’cassa i córegn depertöt (il diavolo mette le corna dappertutto), al te pórta vià ‘l diàol coi cadéne foghéte (ti porta via il diavolo con le catene infuocate), s’ga ol diàol in cà (avere il diavolo in casa) e la farina del diàol la fenéss in crösca (la farina del diavolo diventa crusca, a significare che quel che il maligno tocca, distrugge). C’è comunque un diavolo più buono, ü póer diàol, ü diàol bù, o quello che con un pizzico di ironia si dice l’è prope u diàol! (è proprio un diavolo!). Quando non si sta più nella pelle per la fame, per il freddo o per la fretta, spunta nuovamente il diavolo: öna fam, u frècc, öna frèssa del diàol! E quando, infine, i toni vanno un po’ sopra le righe, ognuno di noi avrà ancora sentito il buon lavoratore bergamasco, arrabbiato, imprecare: diàol bès-cia!, diàol cane!, pòrco diàol! Detti ed espressioni tipiche della bergamasca, repertorio di tante rappresentazioni di burattini, dove fra l’altro il diavolo era una presenza costante, sempre appresso alle figure più strambe, dal pazzo al brigante, dal malvagio al traditore.
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E persino Arlecchino, il servo tonto e un po’ ingenuo conosciuto in tutto il mondo, sembrerebbe nascondere dietro il suo volto mascherato un’origine demoniaca. Sarà forse per la sua goffa e leggendaria figura, vicina a quell’homo salvadego da secoli immortalato presso quella che si ritiene essere la sua antica dimora, ad Oneta di San Giovanni Bianco, o forse per l’origine del suo nome, di probabile origine francese: Hellequin, o Herlequin, perfetto richiamo al demone Herlechinus, che nella tradizione letteraria francese medievale rappresentava il demonio [5]. Anche Dante, nella Divina Commedia, parla di un diavolo di nome Alichino, incontrato nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio dell’inferno, e tutta la tradizione popolare dall’alto medioevo in poi ha spesso associato le rappresentazioni di buffoni mascherati al diavolo, un diavoletto comico o “povero diavolo”. Ci risulterà difficile scorgere nelle sembianze di questo buffo personaggio un’anima posseduta dal demonio, anche se la protuberanza nera che ostenta sulla fronte sembrerebbe proprio ricordare le corna di un diavolo…

[1] Per una lettura completa delle antiche storie e delle leggende qui proposte si rimanda alle opere di Tarcisio Bottani e Wanda Taufer Racconti popolari brembani, edito dalla Comunità Montana Valle Brembana, e Storie e leggende della bergamasca (Edizioni Ferrari, Clusone, 2001). Ulteriori riferimenti si possono trovare nel libro di Carlo Traini Leggende Bergamasche (Edizioni Il Conventino, Bergamo, 1979). Una trattazione di tipo storico e antropologico dell’argomento è stata eseguita da Massimo Centini in L’Angelo decaduto. Il diavolo nella religione, nella storia, nell’arte, nel folklore e nella società (De Vecchi Editore, Milano, 2004).
[2] Si pensi al già citato Passo di Baciamorti, tra la Valle Stabina e la Val Taleggio, che secondo alcuni storici deriverebbe il suo nome dall’antica usanza di trasferire ai luoghi d’origine le salme di coloro che si erano trasferiti dall’una all’altra valle: qui, esse, venivano consegnate dai parenti agli abitanti della valle vicina e baciate per l’ultima volta. O a Trabuchello, ad esempio, che deriverebbe dalla parola trabocchetto, per le rupi e le anguste gole situate nei suoi pressi; alla denominazione di Valle dei Frati, nel territorio di Carona, che si è certi abbia origine dal fatto che di lì passavano i Circestensi della badia di Albino. Ed ancora al Pizzo dei Tre Signori, che fu così chiamato per la sua strategica posizione, al confine fra tre stati: la Repubblica Veneta, il Ducato di Milano e la Repubblica dei Grigioni.
[3] Ci si può permettere qui di sconfinare dall’ambito valligiano per render conto di quanto la tradizione sul diavolo sia ben radicata anche al di fuori della Valle Brembana. Ben nota, ad esempio, è la leggenda del Portone del Diavolo. Sulla strada che conduce da Bergamo a Seriate si trova una specie di portale aperto da due larghi stipiti e un alto frontone in pietra di Zandobbio, il quale serve da ingresso al viale che conduce alla casa di campagna di Celadina. Fu costruito nel 1550 da Sandro da Sanga per ordine del Conte Gian Giacomo de’ Tassis, della famiglia dei grandi Bernardo e Torquato, di origini brembane, ai tempi proprietario della casa. La leggenda vuole invece che quella costruzione fosse sorta per opera del diavolo in persona, distrutta e rifatta in una sola notte. Dello sveltissimo muratore infernale nessuna traccia, all’infuori di un forte odore di zolfo che, nelle sere di temporale, si diffonderebbe tutt’attorno al manufatto.
[4] Benché al giorno d’oggi non ne esista più alcuna traccia, se non nella storia dei sedimenti geologici e nelle antiche leggende, gran parte della pianura compresa fra le province di Bergamo, Cremona e Lodi, era in passato il bacino di una vasta area acquitrinosa formata dalle esondazioni dei fiumi Lambro, Adda, Brembo, Serio e Oglio, conosciuta anche con il nome di lago (o mare) Gerundo. Numerose e particolarmente interessanti sono le testimonianze e gli aneddoti relativi a misteriose creature serpentiformi e dall’alito pestifero che ne infestavano le acque, alle quali la tradizione popolare diede il nome di “draghi”. La credenza nella reale esistenza di tali creature è testimoniata da alcuni reperti ossei (presumibilmente appartenenti a elefanti o cetacei) che fanno ancora mostra di sé in diverse chiese stanziate lungo le antiche propaggini dell’antico lago Gerundo. Ai piedi della Val Brembana, oltre che a San Giorgio in Lemine, si conserva un simile reperto presso il Santuario di Sombreno.
[5] Una delle tante ipotesi sull’origine della maschera di Arlecchino sancisce proprio la sua provenienza francese, datandola alla metà del XIV secolo. Secondo la tradizione, un gentiluomo francese, tale conte di Lovence, fuggì dal suo paese e si ritirò in Val Brembana portando con sé un domestico beone e un po’ ingordo. Un giorno, sorpreso a rubare, il servo fu bastonato e condannato ad aggirarsi per i paesi vicini in dorso ad un asino e vestito di toppe di vario colore.